CURARE IL CORPO (SOCIALE), Maurizio Albertini, maggio 2020

Maurizio Albertini

CURARE IL CORPO (SOCIALE)

La medicina territoriale preposta alla cura del corpo sociale dovrebbe considerare l’aspetto individuale e quello collettivo-relazionale della persona come se fossero diretti dalle stesse forze interne e lesi dallo stesso tipo di patologie, applicando rimedi analogicamente simili anche se ovviamente su scala diversa (per esempio: la diarrea dell’individuo deve essere curata con una compressa di carbone o con un antibiotico, quella della società aggiustando il sistema fognario della città, un intervento di igiene pubblica che conoscevano già gli antichi romani…).

Il corpo e la mente sociali permeano l’ambiente e il territorio, cioè il corpo allargato, sviluppato, condiviso dalla società in cui gli individui sono in relazione fra loro, con l’ecosistema o la città che li ospita.

Già la medicina ippocratica dei greci antichi affermava che “le arie, le acque e i luoghi” erano i pilastri della guarigione o le cause delle malattie. Essa affermava che senza un ambiente sano non esistono persone sane, viceversa sono le persone sane che generano intorno a se stesse un ambiente sano in cui vivere e operare.

Quindi come il corpo viene curato dalla medicina, così il territorio, in quanto luogo del corpo sociale, deve venire curato da una medicina territoriale, una medicina della polis. In questo senso la politica nel suo aspetto di cura del corpo sociale, è una forma di medicina. E questo aspetto medico della politica si evidenzia maggiormente nelle fasi di pandemia, quando il politico, suo malgrado, è costretto a operare sulla sanità pubblica del paese, cosa oggi sotto gli occhi di tutti.

In questo senso il buon governo di una nazione è l’equivalente del medico che cura l’individuo: entrambi devono mantenere un equilibrio nel corpo (o nel corpo sociale) teso alla continuità e mantenimento della salute (individuale o pubblica).

Gli esempi non mancano: se una persona non mangia abbastanza o mangia male e troppo può nel primo caso morire di fame e nell’altro sviluppare patologie legate a disturbi del comportamento alimentare. In senso sociale questo si deve tradurre nello squilibrio eccessivo fra poveri e ricchi, fra mancanza del necessario in alcuni e nevrosi ossessiva da denaro, obesità e accumulo patologico negli altri. Ancora: se l’individuo ha basse difese immunitarie perché debole o malato i microrganismi lo attaccheranno più facilmente, analogamente se il corpo sociale è debole e corrotto o disorganizzato sarà più facile preda, avrà meno anticorpi sociali, poche persone integre, nei confronti della criminalità che lo infetterà e lacererà più facilmente…

Quindi la buona politica è anche medicina, e la medicina è anche politica (nel senso di cura dei molti, della città cioè polis), come la madre che accoglie i figli (tutti, senza esclusione o discriminazione). Esse rappresentano (nel migliore dei casi) la realtà concreta del simbolo dell’Italia turrita: la donna con le mura della città che fanno da corona intorno alla testa, come un baluardo a protezione dei suoi abitanti (tutti, nessuno escluso o fuori dalle mura di protezione). E la medicina del territorio è una espressione dell’atto medico e politico sulla totalità degli abitanti e sull’ambiente, per questo è così importante e basilare come lo scheletro su cui si àncorano tutti i tessuti corporei.

Questa analogia fra individuale e collettivo può mostrarci anche l’origine (eziopatogenesi) delle malattie del corpo sociale. Seguiamo la natura: se nel corpo una parte prevale sul tutto è in genere un sintomo di malattia e, a volte, di morte. Se una cellula che impazzisce si sgancia dai meccanismi omeostatici di controllo e il sistema immunitario non la riconosce come estranea e non la elimina, si avrà alla fine la crescita di un cancro con metastasi che potrà portare alla distruzione totale dell’organismo che lo ospitava. Se le stazioni linfonodali periferiche, distribuite in tutto il corpo, che drenano la linfa e bloccano cellule maligne e microorganismi patogeni non esistessero, noi saremmo facile preda di ogni elemento perverso, interno e esterno.

E’ facile vedere l’analogia in una società, e cosa accadrebbe se fosse priva di sorveglianza ‘sanitaria’ nei confronti di elementi che volessero dominare in maniera totalitaria e sganciata dalla relazione con tutti gli altri.

Quindi dovendo trarre delle conclusioni dalla analogia fra corpo individuale e corpo sociale a livello della cura, possiamo affermare che solo una capillare sorveglianza del territorio ci può garantire la salute.

A partire dagli anticorpi, globuli bianchi, linfonodi satelliti, grandi stazioni linfonodali, sistema circolatorio e linfatico, milza e fegato, fino al Sistema Nervoso Centrale e a quello neurovegetativo, al microbiota intestinale, che invia informazioni tramite citochine al cervello e ne riceve in risposta altrettante, è tutto un sorvegliare e agire microscopico e macroscopico con una inarrestabile comunicazione nei due sensi.

Così deve essere, secondo natura, la medicina e la politica del territorio. E traducendo questo in termini operativi significa: medici di base, assistenti sociali, infermieri, forza pubblica di ogni tipo (anticorpi), con reti di collegamento costante fra loro (medici associati fra loro in rete e con gli altri servizi, quando necessario). Ambulatori attrezzati distribuiti nel territorio (linfonodi), ospedali (milza), piccoli centri di cura: “le case della salute” per patologie croniche, Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA) in visita nelle case dei malati (e non il paziente con patologia cronica o infettiva o mentale che va in ospedale, saltando le stazioni intermedie). Tutti collegati fra loro, con banche dati che facilitino l’anamnesi e la consultazione delle cartelle cliniche ovunque, anche nei luoghi più remoti, e che devono avere ambulatori attrezzati anche se fossero nel paese più distante da un grande ospedale.

Solo l’integrazione fra cure primarie territoriali e servizi ospedalieri segue la via della natura. Non può esistere solo un cuore senza un vasto sistema circolatorio o un cervello senza nervi periferici o una milza senza sistema linfatico (cioè il vecchio e obsoleto modello in stile ‘ospedale unico’, la testa staccata dal corpo).

Per concludere: solo una medicina territoriale pubblica efficiente, collegata in rete al suo interno e con ambulatori omogeneamente distribuiti, a loro volta collegati a pochi ospedali di massima specializzazione, può contrastare la pericolosa tendenza sia all’accentramento delle funzioni in un solo polo che alla costosa offerta di cura degli ambulatori polispecialistici privati che si sostituiscono a un funzione pubblica oggi carente, tendenza che si manifesta nel modello americano o lombardo, il cui mortifero fallimento è oggi sotto i nostri occhi.

Maggio 2020

PERCHE’ UNA CITTA’ NON PUO’ NON AVERE UN OSPEDALE AL SUO INTERNO, Maurizio Albertini, gennaio 2020

Maurizio Albertini

PERCHE’ UNA CITTA’ NON PUO’

NON AVERE UN OSPEDALE

AL SUO INTERNO

PREMESSA

Prima di procedere alla riflessione sulla natura dell’ospedale e sulla sua funzione sociale, psicologica e materiale è necessario capire perché esiste nella forma attuale e perché è indispensabile che questa forma sia mantenuta.

L’ospedale quale noi lo conosciamo nasce da una cultura e da una tradizione antiche di più di mille anni e tuttora valide perché hanno superato la prova del tempo. Queste tradizioni si possono adeguare alla modernità ma non si può mutarne l’essenza senza distruggerle.

Nella Grecia antica erano degni di cura solo i cittadini liberi ma non gli schiavi, nella Roma repubblicana e imperiale l’attenzione alla salute veniva considerata come un fatto utilitaristico e non come un impulso caritatevole nei confronti di chi soffriva: questi due antichi modelli elitari e esclusivi sono molto simili a quello che viene attualmente proposto nei paesi anglosassoni e protestanti (Gran Bretagna e Stati Uniti in particolare) in cui lo spirito di aiuto ai sofferenti è secondario mentre prevalgono il modello tecnologico e quello economico (sanità pubblica ridotta, privatizzazione, obbligo di un’assicurazione per ottenere le cure anche in caso di urgenza, alti costi individuali e penalizzazione sociale dei meno abbienti).

Nella Roma cristiana e solo dopo il IV secolo dopo Cristo sorgono i primi ospedali dell’Occidente grazie all’impulso di ricchi privati e vescovi: sono eccellenti per grandiosità, qualità di assistenza medica, aspetto e funzionalità architettonica: l’ideale che sta alla base, che è unico nel mondo all’epoca e che è valido tuttora in Italia è: stare con i sofferenti, con i più miseri, visti come altri Cristi, notte e giorno: ospitarli. Da qui nasce la parola Hospitale/Ospedale.

Dal 1200, sulla spinta dei movimenti monacali spirituali e dei cavalieri templari, l’Hospitale è il luogo dove si alloggiano gli ospiti, i forestieri, i poveri, i moribondi, le vedove, gli orfani, i malati: è la casa di Dio (in francese la Maison-Dieu era il nome dell’ospedale).

Dopo il 1400 questo luogo progressivamente instaura forti legami amministrativi e economici con gli organi di governo cittadini e con i bisogni della popolazione cittadina, non è solo per i forestieri dunque. La base materiale e il fondamento spirituale dell’ospedale quale noi lo vediamo ora e che ne costituiscono ancora l’ossatura essenziale sono: CARITAS, SOLIDARISMO CORPORATIVO, CONFRATERNITE.

Un esempio paradigmatico di questo: fino agli anni ‘80-’90 del secolo scorso a Milano, nell’ospedale di Niguarda, le infermiere erano ancora quasi tutte soltanto suore.

RIFLESSIONI SULLA FUNZIONE DELL’OSPEDALE

L’ospedale è quindi l’aspetto caritatevole della città: è la sua funzione materna che accoglie, avvolge, abbraccia, nutre, cura, che dall’alto si piega verso il debole, il sofferente, che incontra lo straniero, lo sconosciuto, l’emarginato, il malato, cioè i suoi figli fragili.

La concentrazione dei poli ospedalieri in un grande polo unico è il modello americano che si è già dimostrato più difficile da gestire che non tanti padiglioni o piccole realtà territoriali diffuse, sia come manutenzione, che come burocrazia. Ma questo modello è soprattutto negativo sul riflesso nei pazienti dei vissuti di ospedalizzazione.

Il luogo anonimo, nuovo, ignoto e distante, non familiare, crea angoscia: la fragilità psicologica di chi ha bisogno e la sua soggettività vengono poco prese in considerazione, mentre in una struttura a dimensione umana si sa che la cura è migliore.

Non a caso i ricchi vanno nelle cliniche a misura d’uomo, piccole e e accoglienti.

In un ospedale a misura d’uomo anche gli esiti sulla salute e gli effetti delle terapie e delle cure sono più efficaci: vengono mobilitate le energie psichiche e emotive che sono depresse. Un luogo troppo disumanizzante, distante e scollegato dal luogo in cui si abita, scollegato dagli affetti, va nella direzione di deprimere le capacità di reazione delle persone, come insegna attualmente anche la Psiconeuroimmunologia (PNEI).

Una cosa è entrare in una grande struttura per emergenze o interventi altamente specializzati che richiedono cure e tecnologie all’avanguardia (peraltro indispensabili), altra è la cura della patologia cronica o di quella corrente che necessita più del fattore umano e ambientale. Tanto più se il territorio non garantisce più a sufficienza le cure e non funziona più, aumentando così l’accesso all’ospedale anche per patologie banali che normalmente non richiederebbero il ricovero o le visite in pronto soccorso (i famosi codici bianchi e verdi che ne intasano le sale di attesa).

Tanto più si toglie dal contesto urbano e sociale un ospedale, tanto più si avrà una situazione di isolamento oggettivo del paziente e dei parenti che faranno fatica a raggiungerlo e a dargli sostegno (In Trentino i parenti dei pazienti oncologici vengono alloggiati in case vicino all’ospedale per ovviare a questi disagi). L’ospedale anonimo, gigante, lontano da tutto e da tutti assomiglia al carcere di massima sicurezza, con una sanità sempre più tecnologica e costosa, senza fattore umano e relazionale, orientata in termini di stampo ingegneristico-riduzionistico e meccanicistico-biologico.

La distanza del paziente e dei suoi parenti dalla loro casa sposterà su di loro i costi della logistica e del trasporto, sia in termini di tempo, che di denaro, che di fatica fisica e psicologica. Chi potrà permettersi visite serali a pazienti lontani? Si dovrà usufruire di ferie e permessi per questo? Chi non avrà una macchina o qualcuno che lo porti, soprattutto se è anziano, come farà? Non tutti hanno tanto denaro e tanto tempo a disposizione. E questa mancanza di supporto e affetto influirà sicuramente in modo negativo sulle cure e sulla guarigione, aggravando i costi dell’ospedalizzazione e lo stress del già scarso personale sanitario.

Un ospedale avulso dal contesto sociale, tagliato fuori dal tessuto sociale, esclusivo e non inclusivo, difficile da raggiungere, crea disagio alle famiglie e agli anziani, rompe i legami affettivi, non è terapeutico per le patologie croniche e per quelle più comuni, rende più pericolosi per il ritardo nell’intervento i parti, gli ictus cerebrali, gli infarti cardiaci, gli incidenti stradali, e inoltre ha alti costi di stress per il personale (per il pendolarismo e per la riduzione degli organici se di due ospedali se ne ricava uno).

Inoltre ai danni morali e materiali bisogna anche sommare il danno economico legato alla perdita di posti di lavoro nella città in cui verrà a mancare un ospedale, che normalmente occupa centinaia di soggetti qualificati e non, oltre all’indotto.

UN CASO PARTICOLARE: LA PSICHIATRIA

La separazione dell’ospedale dalla sua città e dal suo tessuto sociale sarebbe particolarmente grave nell’ambito psichiatrico di una realtà come quella di Imperia che ha la percentuale di pazienti psichiatrici rispetto alla popolazione più alta d’Italia (seconda è Gorizia, altra zona di confine).

In una realtà in cui gli ambulatori territoriali non funzionano più come un tempo per la carenza di personale tutta la patologia psichiatrica affluisce nell’unico Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura rimasto in provincia, cioè nell’ospedale di Imperia (l’altro SPDC era nell’ospedale St. Charles di Bordighera, ma è stato chiuso alcuni anni fa in previsione della sua privatizzazione, scelta discutibile che ha generato molto disagio sia negli utenti che nel personale sanitario).

La frequenza di visite e afflusso di pazienti psichiatrici che si fanno visitare e ricoverare a Imperia è immensa, la loro provenienza è da Nava e Andora fino a Ventimiglia, per non parlare dei turisti e di tutti gli stranieri che in estate invadono la Riviera e il Dianese (molti sono i piemontesi, i tedeschi e i francesi). A Bordighera-Ventimiglia non esiste la reperibilità psichiatrica ospedaliera in nessun momento della giornata e della settimana, a Sanremo non esiste dopo le ore quindici fino alle otto del mattino successivo e non esiste nei festivi e nei fine settimana. Tutto arriva sempre all’ospedale di Imperia.

Le richieste di consulenza psichiatrica per patologie psichiatriche non gravi e legate a patologie organiche al pronto soccorso di Imperia, Sanremo e al punto di primo soccorso di Bordighera è molto alta. Altissime sono le richieste di consulenza all’interno dell’Ospedale nei vari reparti. Ma la cosa più importante, essendo Imperia il fulcro di tutta questa patologia psichiatrica, è che all’interno del reparto di Psichiatria vengono ricoverati soggetti che soffrono molto spesso di patologie organiche croniche gravi, soprattutto gli anziani.

Le patologie cardiache, neurologiche, infettivologiche, nefrologiche, pneumologiche e mediche (diabete, emopatie, epatopatie) sono frequentissime e richiedono continue visite specialistiche da tutti gli altri reparti ospedalieri, che a loro volta richiedono continuamente lo psichiatra nei loro reparti.

Non è pensabile che il Servizio Psichiatrico sia lontano dalla città di Imperia, da Diano Marina, da Andora e da Pieve di Teco, tutti luoghi ad altissima densità di patologia mentale e che inviano continuamente persone in visita.

Non è neppure pensabile un reparto di psichiatria senza un ospedale che lo circondi e lo supporti con la maggior parte delle specialità mediche e chirurgiche, compresa la radiologia (non si può pensare di non poter fare una TAC cerebrale in un caso psichiatrico dubbio e non si può trasportarlo da nessuna parte se è in una fase di acuzie o in Trattamento Sanitario Obbligatorio).

Molte richieste vengono anche da tutte le case di riposo e dalle comunità terapeutiche per pazienti psichiatrici disseminate in città, nel territorio imperiese e dianese, nella Valle Impero e nella valle Arroscia (due comunità per pazienti psichiatrici a Diano Marina, una a Carpasio, un’altra a Civezza, una a Verezzo sopra a Sanremo, una a Riva Ligure, una comunità per pazienti tossicodipendenti a Imperia, ecc. ecc.).

Inoltre dalla Casa Circondariale di Imperia e dal carcere di Sanremo (Valle Armea) sono frequentissime le richieste di visite e i ricoveri psichiatrici nell’ospedale di Imperia.

CONCLUSIONI

L’ospedale è una funzione della città. E’ il sistema di guardia sanitaria (profilassi) che la protegge dalla malattia e dallo squilibrio che ne minacciano continuamente il funzionamento armonico.

Scorporare e separare questa funzione di sorveglianza e protezione equivarrebbe a dire che dal corpo umano si dovrebbero scorporare tutti i suoi sistemi difensivi, riparativi e omeostatici (sistema immunitario, epidermide, sistema muscolo-scheletrico, sistemi digestivo e emuntorio, pancreas, fegato, equilibrio psicologico ecc.) per spostarli all’esterno, in un luogo distante, fuori da esso: si sa bene che conseguenze avrebbe per l’organismo il crollo o l’assenza delle difese immunitarie, e anche di quelle psicologiche.

Non si può quindi separare questa funzione profilattica, cioè l’ospedale, dal corpo sociale costituito dalla città e dai suoi abitanti senza subirne poi le conseguenze negative sulla salute della comunità.

Venendo meno la funzione difensiva il corpo sociale cittadino si troverebbe facilmente esposto ad attacchi di tutti i tipi (morali e materiali cioè psicologici e organici), ma soprattutto verrebbe a mancare la fondamentale funzione psicologica del sentimento materno di protezione (la madre/città/ospedale che cura il figlio debole/cittadino o straniero).

Questa perdita, questo vuoto, questa distanza (psicologica e materiale) sarebbero poi all’origine di un vissuto di angoscia, insicurezza, instabilità, di un sentimento di lutto e smarrimento: tutti fattori che possono generare reattivamente proteste, aggressività e violenza, auto o eterodiretta (come le aggressioni contro il personale sanitario nel pronto soccorso dei vari ospedali, nei reparti o alla guardia medica), ma soprattutto incrementare la già troppo alta frequenza di patologia mentale.

Gennaio 2020