DANIELA NEGRO
MAURIZIO ALBERTINI
FIABE LIGURI INTERPRETATE
INDICE
Prefazione alla prima edizione
Prefazione alla seconda edizione
Introduzione alla prima edizione
Introduzione alla seconda edizione
A carbunina
Commento alla fiaba
Il pane per la settimana scorsa
La canzone del calzolaio
Il pappagallo e la “calà”
Le lacrime di Serafino
Il segreto dell’Isola del tiglio
Commento alla fiaba
Il venditore di castagne
I rintocchi della verità
La cascina del campo del lago
La “basura” di Cian Bon e la pietra magica
Commento alla fiaba
La leggenda della “lescia”
Commento alla fiaba
Filumena e a campana d’ou
A fora du furmaggiu
A fora de Pegulin (Pinulin)
‘A grotta dell’ursu’ e la pentola dei desideri
Un fiore tra la neve
Poesia dedicata a Pieve di Teco
Poesia dedicata “au campanà” di Pieve di Teco
Il contadino
L’uccelletto e il cacciatore
Luglio di fuoco
Il dono della vita
Prefazione alla prima edizione
Nulla avviene per caso, sia nelle fiabe che nella realtà. Quando la dottoressa Daniela Negro mi ha così cortesemente chiesto di scriverle una prefazione per il suo libro sulle fiabe liguri io stavo leggendo ‘Le fiabe interpretate’ di Marie-Louise Von Franz, il testo più importante sull’argomento. Lei non poteva saperlo, lo sapeva però la sua anima che è poi la materia di cui trattano le fiabe.
Le fiabe ci parlano di contenuti psichici che sono molto lontani dalla coscienza umana. Esse si basano su alcune funzioni universali della psiche, sono dei modelli di vita psichica del tutto astratti. Rappresentano il nostro funzionamento profondo, che emerge poi con grande lentezza nel comportamento delle persone, ma non è la descrizione della vita come siamo abituati a osservarla quotidianamente.
Nelle fiabe è sempre presente un elemento sacro, numinoso, magico: esse ci riempiono di meraviglia o di terrore nei confronti del divino e della natura, altrimenti non sono vere fiabe.
In origine erano soprattutto gli adulti che erano interessati alle fiabe, perché esse hanno sempre avuto effetti benefici e trasmettevano insegnamenti sulla vita profonda simili a quelli dei sogni. In questa raccolta è evidente la funzione benefica e creativa, l’aspetto salvifico e curativo delle fiabe.
In ogni tempo è stato così, le favole non erano cose da bambini, erano un insegnamento tradizionale orale per gli adulti in epoche in cui la parola, il linguaggio e i rapporti umani avevano maggiore importanza di oggi. Le fiabe, ancora più dei miti, ci illuminano sulla funzione compensatrice dell’inconscio. Che cosa cerca di manifestare l’inconscio collettivo? Attraverso le fiabe si esprimono contenuti inconsci per i quali la mentalità collettiva dell’epoca o del gruppo sociale non possiede un linguaggio.
Esse sono basate in larga misura su esperienze interiori che non sono interamente assimilabili alle rappresentazioni collettive, ai modi usuali di esistere e comportarsi di un certo luogo e di un certo periodo. In questa raccolta l’elemento magico e salvifico di compensazione è molto evidente in quasi tutte le fiabe.
Per esempio: nella favola “A Carbunina” il protagonista, un marchese, il più valido rappresentante della coscienza collettiva , un nobile, si allontana dalla sua sterilità interiore, dalla sua quotidianità diventata ormai una noiosa routine. Seguendo i consigli di maghi e indovini, cioè del suo inconscio che parla con la voce dell’irrazionale e che rompe gli schemi usuali della ragione della sua epoca, va alla ricerca della sua fecondità e trova la sua anima, una carbonaia. La Carbonaia rappresenta un’antica divinità della terra e della natura. I greci la chiamavano Demetra o La Nera, era lo spirito fecondo della terra che permetteva ai semi di ogni specie, umana, animale e vegetale, di nascere e di crescere. Fa il carbone, quindi genera il calore, la luce, il fuoco, cioè consapevolezza e eros. Le Madonne Nere cristiane, spesso venerate nei sotterranei o nelle cripte delle cattedrali, per esempio a Chartres in Francia o a Montserrat in Spagna, sono un residuo di questa antica dea della natura, oggi scomparsa dai nostri altari, ma ancora viva nell’inconscio ligure evidentemente. L’anima del marchese è nera perché ormai è da troppo tempo dimenticata, senza luce. Da molto non è portata alla luce della coscienza, anche se l’autore lo fa adesso, inconsapevolmente, con questa fiaba. Vive in mezzo al bosco, cioè nell’inconscio collettivo. La Carbunina è umile, cioè è vicina alla terra, all’humus, e possiede la camicia che dà la fecondità, i quattro figli, le parti giovani e nuove della personalità.. Il quattro è il numero che simboleggia una totalità raggiunta, un luogo centrale dell’anima, un nuovo orientamento per l’ego del protagonista: quattro sono i punti cardinali, quattro gli evangelisti ecc. ecc. Il Marchese nella fiaba ritrova un nuovo femminile fecondo, vicino alla madre natura, e abbandona quello vecchio e sterile. Si rinnova attraverso la camicia, un involucro intimo, che è a contatto del corpo e rappresenta la pelle, la mutazione psichica avvenuta, come nei serpenti a primavera.
Le fiabe rappresentano dunque un movimento di morte e rinascita che si trova ancora nell’inconscio e come giustamente fatto notare dalla dottoressa Negro in esse è radicata l’affermazione di vitalità, base su cui costruire le relazioni in ogni età della vita.
Dr. Maurizio Albertini,
Psichiatra e Psicoterapeuta,
Centro di Salute Mentale di Imperia,
U.O. Assistenza Psichiatrica, ASL 1 Imperiese
Prefazione alla seconda edizione
La raccolta di fiabe liguri che presentiamo è stata già pubblicata e presentata nel settembre del 2009 con il titolo:
GLI ANZIANI DELLA CASA DI RIPOSO SEN. B. BORELLI A.S.P. PRESENTANO
‘E FORE DE MAININ’.
In occasione della presentazione del libro la dottoressa Negro ed io abbiamo deciso di ampliare il lavoro e di preparare un commento ad alcune delle fiabe raccontate dagli ospiti della Casa di Riposo.
Le interpretazioni psicodinamiche che dovrebbero gettare un po’ di luce sulle profondità della psiche ligure quale emerge da queste fiabe vogliono da un lato essere un omaggio agli autori e dall’altro fornire un piccolo contributo per poter apprezzare meglio i tesori nascosti in ciascuno di loro.
Speriamo dunque di essere riusciti con il nostro lavoro a dare qualche chiave interpretativa simbolica ai lettori e a permettere all’Anima Ligure, che abita in ogni abitante di questa bella regione, di esprimersi con maggiore efficacia attraverso gli strumenti che la psicologia analitica ci ha da qualche decennio messo a disposizione.
Dr. Maurizio Albertini
Psichiatra e Psicoterapeuta
Introduzione
Questa raccolta di fiabe, insieme a qualche poesia, è il risultato del lavoro svolto dagli ospiti della Casa di Riposo Sen. B. Borelli nell’ambito delle attività di terapia occupazionale ed animazione, all’interno del laboratorio di scrittura.
Nel laboratorio pensiero e parola prendono forma. Qui gli anziani possono esprimersi percorrendo sentieri creativi ed emotivi, ognuno viene così riconosciuto come soggetto unico e prezioso.
Questo tipo di attività, sia individuale che di gruppo, utilizza l’area creativa che le persone conservano ad ogni età. Ho la convinzione che in queste favole vi sia radicata l’affermazione di vitalità dell’uomo, base fondamentale su cui costruire le relazioni. Ogni anziano fa il possibile, utilizzando le potenzialità ancora a disposizione, per essere qualcuno e lasciare qualcosa di sé agli altri.
Le storie, attraverso la loro narrativa semplice, rivelano alcune volte bisogni e desideri ma in ogni caso l’essenza delle emozioni umane e del loro posto nella mente.
La fiaba offre la possibilità di sognare riconoscendosi nei personaggi, di identificarsi con essi, di attribuire elementi negativi prendendone le distanze ed è utile, inoltre, nella comprensione delle motivazioni ed intenzioni degli altri per capire le situazioni di relazione. In ogni caso si ha l’opportunità di proiettare idee e sentimenti che altrimenti rimarebbero inespressi.
La fiaba è quindi una via che attraverso il riconoscimento di elementi personali porta alla conoscenza, alla rielaborazione di fattori che fanno parte dell’uomo stesso, che legano l’anziano di oggi al bambino di ieri ripercorrendo un sentiero situato nella sfera più intima di ogni persona. All’interno di un gruppo si condividono gli elementi emersi nel racconto. Attraverso la fiaba ci si racconta, tutto può essere detto, si cammina sul filo che separa la realtà dalla fantasia senza la soggezione della razionalità, dove sognare diviene espressione di sé e dove l’uomo incontra se stesso e gli altri uomini.
Raccontarsi attraverso una fiaba permette di ricordare frammenti di vita: quando si stava attorno al fuoco con i vecchi del paese che raccontavano leggende fantastiche e spesso spaventose, dove il racconto, l’ascolto e lo stare insieme significavano affrontare l’ignoto, l’incontrollato e preparava ad affrontare la vita.
La fiaba stessa è fantasia ed entra con naturalezza nello spazio creativo di ogni persona a tutte le età, nel bambino formandolo, nell’anziano accompagnandolo in una dimensione già conosciuta permettendogli di ritrovare la parte più intima di sé, la più vera ed emotiva, negli adulti favorendo un contatto con i demoni dell’inconscio.
Un sentito ringraziamento per l’impegno ed un pensiero di affetto sono rivolti a tutti gli ospiti, anche a quelli che oggi non ci sono più, che con la loro disponibilità mi hanno regalato la ricchezza di guardare alla vita con occhi diversi.
Dott.ssa Daniela Negro
Psicologa responsabile del servizio di animazione
e terapia occupazionale presso la Casa di Riposo
Sen. B. Borelli A.s.p. di Pieve di Teco (IM)
INTRODUZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE
LA FIABA NELLA RELAZIONE DI AIUTO: UN CAMMINO INTERIORE E METAFORA DELL’UMANITA’
La fiaba è una sequenza di simboli che comunicano contemporaneamente sul piano della coscienza, che deve comprendere utilizzando la sua parte razionale, e su quello più profondo dell’inconscio che lo rielaborerà oltre i limiti della mente in un’area di sapere antichissimo comune ad ogni uomo.
Con la scrittura della fiaba attiviamo principalmente la parte destra del cervello proiettandoci automaticamente in una dimensione di rilassamento e creatività, condizione questa di grande ricettività al cambiamento. Appena iniziamo a scrivere attingiamo infatti a energie interiori e le caratteristiche personali dell’autore vengono racchiuse in ogni simbolo citato nel racconto.
L’anziano vive la propria esperienza all’interno di uno spazio che nella fiaba prende forma già dal “C’era una volta…”, il quale proietta la persona automaticamente nei luoghi più profondi della psiche, in un’area dove tutto, grazie ai messaggi simbolici provenienti dall’inconscio, può rivivere come nei sogni. Ciò avviene liberamente senza l’intromissione della razionalità che interverrà solo successivamente per apportare logica al racconto. I temi narrativi ricorrenti rivelano i nostri comuni desideri e bisogni tornando costantemente a ripresentarsi nelle tradizioni di popoli con radici culturali molto differenti.
Le fiabe sono infatti qualcosa di molto profondo sia a livello personale che collettivo, sono messaggi indelebili di ciò che è stato il percorso dell’umanità. Esse rappresentano, attraverso la trama, i personaggi e le situazioni, un valido strumento per soddisfare il bisogno di esplorare le nostre possibilità attivando il desiderio non solo di immaginare ma soprattutto di trovare un senso e di “dare significato” al mondo.
Le fiabe ricoprono una dimensione che ci arriva intatta dal nostro passato e la vecchiaia è una fase della vita in cui attribuire significati mirati alla comprensione di se stessi e degli altri diviene essenziale.
Si ha il bisogno di riflettere, di ascoltare la voce dei propri silenzi e crescere trovando senso.
Attraverso la fiaba ci viene trasmessa la speranza che esista sempre un’altra possibilità, una possibilità di cambiamento. Le favole hanno il potere di infondere nello scrittore e in chi le ascolta fiducia, ricordando che ci sono opportunità e risorse insperate che entrano in gioco proprio nei momenti in cui ci si sente perduti ed a cui si può attingere per affrontare il proprio viaggio. Le vicende raccontate nelle fiabe si riferiscono a problematiche di carattere universale, comuni a tutti gli uomini, esse rappresentano la formazione dell’Io e spesso agevolano la liberazione di pressioni interiori suggerendo elaborazioni a livello emotivo, mentale e psichico. Le fiabe hanno il potere, quindi, di modificare i processi mentali di chi le scrive e ripristinare meccanismi irrigiditi che recano disagio.
E’ un prezioso strumento che conduce il soggetto verso la riflessione all’interno di sentieri interiori che suggeriscono modelli adeguati a cui attingere favorendo la ricomposizione di parti dell’Io frammentate e la scoperta di energie profonde.
Le fiabe trasudano di significati latenti come i sogni e grazie alla rappresentazione simbolica fanno emergere tematiche inconsce ed attivano profondi processi di trasformazione. In questo modo la nostra razionalità non può che prendere atto di quanto avviene interagendo con i simboli e limitando a se stessa l’espletamento della sua unica funzione legata alla comprensione ed alla deduzione logica, senza sovrastrutture interpretative e teoriche che la parte sinistra del cervello tenta sempre di anteporre alla destra.
Studi di visualizzazione dell’attività cerebrale hanno rilevato numerose attivazioni legate alle storie nell’emisfero cerebrale destro. Fra le aree che sembrano avere un ruolo cruciale nel creare e nel comprendere le narrazioni vi sono la corteccia prefrontale mediale e laterale, sede della memoria di lavoro, che contribuisce a mettere in sequenza le informazioni ed a rappresentare gli eventi descritti nelle storie. La corteccia del cingolo potrebbe essere coinvolta nell’aggiungere immagini visive e spaziali e nel collegare l’esperienza personale alla storia, dando luogo così alla sua comprensione. Regioni cerebrali come la corteccia prefrontale mediale, la giunzione temporo-parietale ed i poli temporali potrebbero invece lavorare insieme per facilitare l’identificazione degli stati mentali dei personaggi. La capacità di “leggere” gli intenti e le motivazioni altrui ci permette non solo di comprendere le storie ma anche, cosa più importante, di capire le nostre relazioni sociali.
I LABORATORI CREATIVI: SPAZIO E TEMPO DI RELAZIONE
Gli anziani dimostrano sempre il desiderio di lasciare qualcosa della loro esperienza e quando si è vecchi si ha paura di non essere conosciuti. Essi sentono il bisogno di avere un ruolo ed una funzione all’interno della comunità degli anziani, la necessità di esternare e condividere l’attaccamento ad oggetti, luoghi e persone. E’ sempre sentito il bisogno di dare un senso al proprio tempo ottenendo di conseguenza un senso di realizzazione personale. L’occupazione individuale ed il lavoro in piccoli gruppi utilizzano la creatività rendendo possibile l’uso dell’intera personalità del soggetto rendendo viva la relazione con l’altro da sé e sostenendo l’identità fragile dell’anziano.
I laboratori permettono agli ospiti di esprimersi nelle attività più varie ed a loro più congeniali essendo organizzati in base alle esigenze di ognuno ed al grado di autosufficienza. Ogni attività quindi diviene uno stimolo per dare voce all’anziano riconoscendolo nella sua preziosità ed offrendogli un posto privilegiato all’interno di una relazione.
I laboratori sono tutto ciò ma sono anche un pretesto per “dare parola” all’anziano riconoscendolo nella sua unicità, tenendo conto della necessità di ogni ospite di esprimere la propria individualità in modi diversi e personali.
In tal senso essi sono contenitori pensati come strumenti in grado di aprire canali comunicativi liberi e dinamici con l’obiettivo di instaurare relazioni significative, bisogno questo insito in ogni essere umano. Secondo quest’ottica i nostri laboratori sono sia creativi ma soprattutto cre-attivi nel senso che ogni persona è stimolata ad essere protagonista, anche per breve tempo ed a seconda delle proprie capacità, di un progetto condiviso.
Questo lavoro vuole rappresentare il tentativo di offrire un contributo ed un punto di vista diverso alla ricerca di paradigmi relazionali nella psicologia dell’anziano, con la speranza di aver aperto un piccolissimo spiraglio sulla realtà degli anziani e su ciò che vive ed è attivo tra chi abita in una struttura protetta. Esiste un patrimonio straordinario che spesso freme e che in molti modi può venir detto ed essere in molti modi accolto. Ogni esperienza si svolge all’interno di continui percorsi creativi nei quali viene promossa l’inter-soggettività. Incontro spesso persone con potenzialità talvolta inespresse e molto sensibili a stimoli che in apparenza possono sembrare insignificanti, ma con il tempo ho imparato a non sottovalutare nulla, alimentando ogni giorno la mia relazione con gli ospiti e creando nuove relazioni tra loro con la stessa curiosità e gli stessi occhi di chi intraprende un nuovo viaggio che non potrà mai essere paragonabile con altri perchè unico. Ho scoperto all’interno del laboratorio di scrittura un’area condivisa di conoscenza dove ognuno con i propri tempi e modi di espressione attiva energie di cambiamento interiore personale e nelle dinamiche del gruppo. In questo modo la conoscenza diviene una interazione conoscitiva che esclude la valenza oggettiva delineandosi invece relazionale.
Ogni età ha i suoi modi di pensare, di essere, di agire e di vedere le cose, e la vecchiaia ha diritto come le altre, di essere vissuta adeguatamente e pienamente, senza fingere di ignorarla e senza essere considerata un limite alla vita.
Lo scopo principale di ogni intervento è quindi quello di utilizzare elementi ed aspetti peculiari di varie discipline e terapie complementari per arrivare alla psicologia dell’anziano partendo dall’anziano stesso.
Dott.ssa Daniela Negro
A CARBUNINA
C’era una volta un marchese che viveva in un castello circondato da un folto bosco ricco di castagni ed olmi il quale oltre a far da cornice proteggeva tutta la tenuta di Frassinello.
Il marchese era molto amato dagli abitanti dei paesi vicini, aveva a seguito un vasto numero di servi e consiglieri pronti a prodigarsi per esaudire ogni desiderio del loro amato signore.
La vita del marchese di Frassinello scorreva ogni giorno tranquilla tra passeggiate a cavallo con l’adorata consorte, cene con i nobili amici del luogo e viaggi in posti lontani, ma più il tempo passava e più la tristezza ricopriva il cuore del generoso marchese.
Nonostante le apparenze suggerissero benessere e tranquillità il marchese desiderava avere figli ma gli anni trascorrevano veloci come nuvole spinte dal vento ed un erede non arrivava mai. Il marchese di Frassinello si faceva consigliare un po’ da tutti, anche da maghi ed indovini, i quali avevano suggerito di procurarsi una camicia della donna più povera ma più felice della terra e ciò avrebbe aiutato la coppia a mettere al mondo un figlio maschio.
Il nobile signore inviò così i servi a sua disposizione in tutta Liguria e Piemonte per trovare la donna ma l’impresa non risultava semplice perché tutte le persone incontrate avevano provato nella vita anche un minimo dispiacere.
Un giorno all’alba partì lui stesso superando la collina di ulivi e boschi che separano Nirasca da Lovegno seguendo la mulattiera frequentata soltanto da contadini e pastori che portavano verso casa latte, formaggi, castagne, uva, carbone e tutto ciò che la natura offriva per sfamare le loro famiglie.
Il marchese ogni tanto era costretto a sostare per riposarsi ed abbeverare il suo cavallo; gli abitanti di quelle zone erano lieti di offrire ciò che avevano al loro signore stremato da giorni di cammino.
La sola cosa che dava sollievo all’animo del marchese di Frassinello era volgere lo sguardo a panorami che toglievano il fiato, a valli strette che scendevano verso il mare lontano, ad orizzonti che smarrivano i pensieri.
Una sera all’imbrunire il signore di Frassinello, giungendo al passo di San Bernardo, passò davanti alla fontana de Pisce ed udì un canto soave provenire dal bosco di Bausci. Attirato dalla leggerezza e dalla musicalità di quella voce di donna si avvicinò e vide una giovane “carbunina” che preparava la legna adatta per fare il carbone.
Era una donna piuttosto robusta, vestita di stracci ed annerita dal lavoro che la impegnava tutto il giorno per evitare che la “carbunea” bruciasse.
Il marchese si avvicinò con estrema gentilezza ed umiltà alla povera donna e le chiese se era felice.
La donna rispose al suo signore che era felicissima, aveva quattro figli sani ed allegri.
A quel punto con un po’ di imbarazzo il marchese di Frassinello disse alla donna che le avrebbe donato metà del suo regno se in cambio gli avesse regalato la sua camicia.
La donna rispose con semplicità che lo avrebbe fatto con tutto il cuore , ma con l’unica camicia che possedeva ne aveva cucito dei calzoncini per i suoi figli il giorno prima.
Questa è la storia del marchese di Frassinello che quella sera parlando con la “carbunina”capì che i soldi e le ricchezze non sono la sola via per raggiungere la serenità.
Daniele Alessandri
Commento alla fiaba
C’era una volta un marchese che viveva in un castello circondato da un folto bosco ricco di
castagni ed olmi il quale oltre a far da cornice proteggeva tutta la tenuta di Frassinello.
Il marchese era molto amato dagli abitanti dei paesi vicini, aveva a seguito un vasto numero di
servi e consiglieri pronti a prodigarsi per esaudire ogni desiderio del loro amato signore.
La vita del marchese di Frassinello scorreva ogni giorno tranquilla tra passeggiate a cavallo con
l’adorata consorte, cene con i nobili amici del luogo e viaggi in posti lontani, ma più il tempo
passava e più la tristezza ricopriva il cuore del generoso marchese.
Nonostante le apparenze suggerissero benessere e tranquillità il marchese desiderava avere figli
ma gli anni trascorrevano veloci come nuvole spinte dal vento ed un erede non arrivava mai.
Nella favola “A Carbunina” il protagonista, un marchese, il più valido rappresentante della coscienza collettiva , un nobile, si allontana dalla sua sterilità interiore, dalla sua quotidianità diventata ormai una noiosa routine.
Il marchese vive con la moglie all’interno di un castello circondato da un bosco in un luogo chiamato Frassinello, cioè piccolo frassino.
La coppia non ha figli. I personaggi citati all’inizio della fiaba sono: ‘i nobili amici’,
‘servi e consiglieri’, ‘gli abitanti dei paesi vicini’, ‘maghi e indovini’.
Vive quindi in una situazione di isolamento psicologico e di solitudine con scarse
relazioni con le parti profonde della personalità e con il mondo esterno distante dai luoghi noti. Li incontrerà solo più tardi, quando avrà oltrepassato mura e bosco a causa
della sofferenza. Cioè quando avrà la forza di immergersi in se stesso e passare il ponte.
Anche la moglie, un femminile con cui comunque è in buona relazione visto che ‘andava a cavallo con lei‘, non gli permette di uscire dalla routine e nemmeno il resto della sua personalità, ben integrata sui valori collettivi dominanti cioè i nobili amici, i servi e i consiglieri.
Il castello rappresenta qui un’immagine dell’ego arroccato in se stesso che si difende dall’inconscio rappresentato dal bosco che rischia di fagocitarlo.
E’ necessario uscire da questo isolamento, da questa prigione. Dai valori collettivi dominanti si deve passare a quelli individuali. Il regno è perciò in una fase di stagnazione. Il nuovo re, il principe, che rappresenta sempre il rinnovamento, il nuovo ordine che compare quando quello vecchio muore o non è più funzionale alle nuove esigenze, non si presenta e bisogna andare a cercarlo uscendo dalle mura del castello e dal bosco avvolgente, che qui sono simboli le prime delle difese dell’io e il secondo dell’inconscio che lo circonda.
Chi racconta questa favola è probabilmente prigioniero di un forte complesso materno che gli impedisce l’accesso a altri tipi femminili diversi dalla madre e lo rinchiude nel vecchio mondo con scarsi contatti con l’esterno.
Soffermiamoci un attimo sulla simbologia degli alberi citati che sono l’olmo, il castagno e il frassino, che raffigurano una forte componente dell’inconscio dell’autore della fiaba e quindi probabilmente anche dell’anima ligure in generale. Nel caso presente l’albero potrebbe rappresentare quella componente del Sé profondo che avvolge la personalità e rischia di soffocarla se non viene integrata e portata alla coscienza. Ha quindi forse una valenza materna protettiva che può però portare all’eccessiva chiusura all’interno della famiglia.
L’olmo è sempre stato considerato un albero oracolare. Virgilio lo chiamava Ulmus Somniorum, l’olmo dei sogni, descrivendo l’olmo dell’Averno:
Nel mezzo spande i rami, decrepite braccia,
un cupo immenso olmo ove a torme albergano,
si dice, i fallaci sogni che alle foglie sono sospesi.1
Nel medioevo divenne con la quercia l’albero sotto il quale si amministrava la giustizia. “Giudici sotto l’olmo” erano i magistrati senza tribunale che sedevano, appunto, ai piedi di questo albero piantato davanti alla porta del castello o nelle piazze (un esempio di questa tradizione è rimasto per esempio nella città di Ormea in provincia di Cuneo, la cui piazza principale si chiama Piazza dell’Olmo e il cui nome latino è Ulmea). E’ simbolo anche di amicizia e di unione, un tempo infatti i tutori per la pianta di vite erano di legno d’olmo. In questo albero quindi ritroviamo l’idea dei consiglieri: giustizia e amicizia, ma anche del luogo oscuro, onirico, infero, tenebroso, da intendersi in questo caso come depressione, l’essere avvolti dalle tenebre con la possibilità però di accedere alle conoscenze dell’inconscio attraverso i sogni, la discesa agli inferi.
Il castagno, albero paterno e nutriente, era dedicato nell’antichità latina a Giove. Nel testo evoca l’idea delle cene con i nobili amici e della ricca situazione materiale del vecchio ordine regnante di tipo patriarcale che però viene minata progressivamente dalla tristezza e dalla necessità del rinnovamento. Nella famiglia d’origine e nel gruppo sociale originario si vive bene da un certo punto di vista ma le esigenze interiori alla fine prevalgono e spingono all’autonomia individuale, nonostante il benessere materiale, e alla ricerca del femminile profondo, dell’anima, della carbonaia.
Se l’olmo e il castagno rappresentano dunque una immagine del Sé profondo in quanto portatore di giustizia, di sogni ovvero messaggi dalle profondità psichiche e di cibo interiore, il frassino definisce meglio l’identità segreta dell’autore della fiaba: il suo Sé. Il protagonista della fiaba è infatti chiamato il Marchese di Frassinello.
Nella mitologia nordica e celtica il frassino è un albero cosmico e sacro, è l’Asse del mondo che si innalza fino al cielo e arriva agli inferi sostenendo e rigenerando l’universo. L’albero è fonte di saggezza cosmica, tant’è vero che Odino apprende i misteri della vita universale, rappresentati dalle rune, restando appeso per nove notti senza cibo né bevanda sul frassino Yggdrasil e superando tre prove iniziatiche.
In Irlanda, terra celtica come la Liguria, tre dei cinque alberi sacri il cui abbattimento nel 665 dopo Cristo segnò il trionfo del cristianesimo sulla religione tradizionale, erano frassini. Fra i Celti essi erano considerati simboli di rinascita e capaci di operare guarigioni miracolose. Fino a un secolo fa in Francia si usava accendere il fuoco nuovo con il legno di frassino chiedendogli di far scendere le prime piogge di primavera affinché rianimassero la vegetazione dopo il lungo inverno. Questo simbolo ci porta direttamente al significato della fiaba, rianimare una personalità con il cuore in inverno, e alla funzione psicologica del Marchese di Frassinello, guaritore interno dell’autore.
Il marchese di Frassinello si faceva consigliare un po’ da tutti, anche da maghi ed indovini, i quali
avevano suggerito di procurarsi una camicia della donna più povera ma più felice della terra e
ciò avrebbe aiutato la coppia a mettere al mondo un figlio maschio.
Il nobile signore inviò così i servi a sua disposizione in tutta Liguria e Piemonte per trovare la
donna ma l’impresa non risultava semplice perché tutte le persone incontrate avevano provato
nella vita anche un minimo dispiacere.
Un giorno all’alba partì lui stesso superando la collina di ulivi e boschi che separano Nirasca da
Lovegno seguendo la mulattiera frequentata soltanto da contadini e pastori che portavano verso
casa latte, formaggi, castagne, uva, carbone e tutto ciò che la natura offriva per sfamare le loro
famiglie. Il marchese ogni tanto era costretto a sostare per riposarsi ed abbeverare il suo cavallo;
gli abitanti di quelle zone erano lieti di offrire ciò che avevano al loro signore stremato da giorni di
cammino.
La sola cosa che dava sollievo all’animo del marchese di Frassinello era volgere lo sguardo a
panorami che toglievano il fiato, a valli strette che scendevano verso il mare lontano, ad orizzonti
che smarrivano i pensieri. Una sera all’imbrunire il signore di Frassinello, giungendo al passo di San
Bernardo, passò davanti alla fontana de Pisce ed udì un canto soave provenire dal bosco di
Bausci. Attirato dalla leggerezza e dalla musicalità di quella voce di donna si avvicinò e vide una
giovane “carbunina” che preparava la legna adatta per fare il carbone.
Era una donna piuttosto robusta, vestita di stracci ed annerita dal lavoro che la impegnava tutto
il giorno per evitare che la “carbunea” bruciasse.
Seguendo i consigli di maghi e indovini, cioè del suo inconscio che parla con la voce dell’irrazionale e che rompe gli schemi usuali della ragione della sua epoca, va alla ricerca della sua fecondità e trova la sua anima, una carbonaia.
Prima però deve fare un faticoso viaggio iniziatico, all’inizio in regioni note, il suo inconscio personale, poi nel Bosco di Bausci, l’inconscio collettivo. Lui è stanco, il cavallo ha sete e manca ormai di forza vitale. Deve superare un passo, immagine classica di entrata in un altro mondo, e trova la sorgente della vita, la fontana del pesce.
Il paesaggio fornisce un’anticipazione della sua futura situazione psicologica di abbandono dei vecchi schemi imprigionanti, i panorami che tolgono il fiato, gli orizzonti che smarrivano i pensieri rappresentano la liberazione dal castello e dalla sterilità del vecchio ordine.
Qui alla sera, quando la coscienza dell’io comincia a spegnersi, sente il canto soave della sua anima, ritrova l’armonia, la musica interiore che proviene dall’inconscio.
La Carbonaia rappresenta un’antica divinità della terra e della natura. I greci la chiamavano Demetra o La Nera, era lo spirito fecondo della terra che permetteva ai semi di ogni specie, umana, animale e vegetale, di nascere e di crescere. Fa il carbone, quindi genera il calore, la luce, il fuoco, cioè consapevolezza e eros.
Le Madonne Nere cristiane, spesso venerate nei sotterranei o nelle cripte delle cattedrali, per esempio a Chartres in Francia o a Montserrat in Spagna, sono un residuo di questa antica dea della natura, oggi scomparsa dai nostri altari, ma ancora viva nell’inconscio ligure evidentemente.
La incontra all’imbrunire: forse questo sta a significare che l’anima viene ritrovata solo alla fine della vita dell’autore, che è una persona anziana.
L’anima del marchese è nera perché ormai è da troppo tempo dimenticata, senza luce. Da molto non è portata alla luce della coscienza, anche se l’autore lo fa adesso, inconsapevolmente, con questa fiaba. Vive in mezzo al bosco, cioè nell’inconscio collettivo. Usa gli alberi per dare calore, permette cioè di usarne l’energia facendo da tramite fra loro e il mondo, fra la natura e la vita quotidiana, fra l’inconscio collettivo e la coscienza individuale.
Il marchese si avvicinò con estrema gentilezza ed umiltà alla povera donna e le chiese se era
felice.
La donna rispose al suo signore che era felicissima, aveva quattro figli sani ed allegri.
A quel punto con un po’ di imbarazzo il marchese di Frassinello disse alla donna che le avrebbe
donato metà del suo regno se in cambio gli avesse regalato la sua camicia.
La donna rispose con semplicità che lo avrebbe fatto con tutto il cuore , ma con l’unica camicia
che possedeva ne aveva cucito dei calzoncini per i suoi figli il giorno prima.
Questa è la storia del marchese di Frassinello che quella sera parlando con la “carbunina”capì che
i soldi e le ricchezze non sono la sola via per raggiungere la serenità.
La Carbunina è umile, cioè è vicina alla terra, all’humus, e possiede la camicia che dà la fecondità, i quattro figli, le parti giovani e nuove della personalità.
Il quattro è il numero che simboleggia una totalità raggiunta, un luogo centrale dell’anima, un nuovo orientamento per l’ego del protagonista: quattro sono i punti cardinali, quattro gli evangelisti ecc. ecc.
Il Marchese nella fiaba ritrova un nuovo femminile fecondo, vicino alla madre natura, e abbandona quello vecchio e sterile. Orienta maggiormente il suo interesse verso il mondo interiore dell’anima, cioè dei sentimenti e dell’intuizione delle forze profonde piuttosto che esclusivamente verso la superficie, l’ego condizionato sia dalla sua educazione collettiva che dal benessere materiale.
Si rinnova attraverso la camicia, un involucro intimo che è a contatto del corpo e che rappresenta la pelle. La mutazione psichica avvenuta è analoga a quella dei serpenti a primavera, il cambio della pelle è il cambio della personalità anche a livello corporeo, non solo a livello psichico e comportamentale.
Ritrovare l’anima in questo caso è anche uscire dallo stato depressivo. Lei infatti è felicissima e i suoi figli sono sani e allegri. Lui raggiunge il cuore, la serenità, il rinnovamento totale della personalità (il 4), dopo avere varcato il passo e essere entrato nel regno dell’anima, che è una antica dea della natura, padrona delle forze che reggono la vita e la morte e ci unisce all’inconscio, ai sogni, che sono la natura che ci parla, la natura che si manifesta in noi.
IL PANE PER LA SETTIMANA SCORSA
C’era una volta una famiglia di contadini che viveva in un piccolo borgo sperduto tra le montagne liguri. Il borgo era dominato da un potente padrone proprietario non solo delle cose ma anche dell’esistenza dei suoi abitanti.
La famiglia protagonista di questa storia era composta da padre, madre e un figlio di pochi anni che viveva grazie al grano che coltivava ed a qualche capo di bestiame. Quell’anno a giugno il grano era quasi secco e quindi pronto per essere mietuto ma un’improvvisa e violenta grandinata rase tutto al suolo ed il raccolto fu quasi nullo tanto che l’anno a presso non ebbero da mangiare. Per comprare la farina i soldi non bastavano e la moglie Palmira era stata costretta a farsi prestare il pane per sfamare la famiglia; anche Lupo contrasse un debito ancora più grande all’insaputa della donna e proprio con la persona più crudele del luogo, il vecchio padrone.
Quella sera il povero contadino tornò a casa con tante cose da mangiare e allo sguardo incredulo della moglie rispose di aver fatto un accordo con il vecchio padrone dal quale si era fatto prestare dei denari da restituire con il vitello che avrebbe partorito la loro mucca il mese successivo.
Nelle settimane seguenti la vita andava avanti come al solito anche se c’era da lavorare il doppio per riuscire a saldare i debiti.
Il bambino vedeva i genitori sempre tesi ed affaticati, non avevano più il tempo per giocare con lui; si era accorto che la sera quando andava a letto la luce della cucina rimaneva accesa fino a notte fonda. Dopo nove mesi di gestazione purtroppo Lupo non potè estinguere il debito con il padrone perché il parto della mucca ebbe delle complicazioni ed il vitellino nacque morto.
Disperato ed impaurito per le ripercussioni cui poteva andare incontro, l’uomo non sapeva cosa fare e cercava sempre di evitare l’incontro con il ricco signore il quale andò per giorni a bussare alla sua porta. Una mattina ad aprire la porta di casa al creditore fu il figlio Martino al quale il vecchio padrone chiese dove fossero i suoi genitori.
Il bambino intimidito da quella austera figura rispose che il padre era a far un buco per coprirne un altro e la mamma era a fare il pane per la settimana scorsa.
Il figlio del contadino si era fatto una personale idea di ciò che stava accadendo nella sua famiglia e lasciò senza parole chi era andato lì per usurparli di quel poco che avevano ancora.
Tornato a casa riflettè sulle parole del bambino e nel silenzio della sua dimora la rabbia e l’offesa crebbero ancora di più. Ferito nell’orgoglio e sentendosi preso in giro si diresse con passo svelto nuovamente alla casetta dei contadini e portò via la sola mucca che dava loro quotidianamente un po’ di latte.
Quando Lupo si rese conto dell’accaduto, dopo che Martino raccontò con quanta forza aveva cercato di opporsi al padrone per difendere la sua mucca, il povero uomo si recò in paese esasperato da quella situazione di stenti e schiavitù cui tutti gli abitanti dovevano da anni sottostare.
Gli uomini del paese in una notte di luna piena si riunirono ed andarono al palazzo del padrone, lo colsero nel sonno, lo legarono come un salame, lo misero in una botte tappezzata di chiodi e lo fecero rotolare giù dal monte più alto da cui il perfido padrone dominava il paese.
Da quel giorno tutta la popolazione si liberò dagli obblighi che rendevano loro oggetti di proprietà del ricco signore, i bambini tornarono a giocare sereni per le strade del paese ed un cielo limpido di libertà iniziò a regnare sulla valle.
Daniele Alessandri
Alfredo Cappello
LA CANZONE DEL CALZOLAIO
In un piccolo villaggio di contadini e commercianti sperduto tra i monti della alta valle che sfumano verso un limpido cielo di primavera, dominava un ricco e potente conte.
Il castello si ergeva su una roccia che sovrastava il borgo nel quale viveva a stento un povero calzolaio con i suoi cinque figli.
Quel mattino il piccolo villaggio brulicava di persone che in occasione del mercato si aggiravano tra le bancarelle di frutta, ortaggi, dolciumi e tessuti.
Mentre gli abitanti del villaggio cercavano di acquistare i prodotti che servivano, il povero calzolaio risuolava scarpe cantando attorniato dai suoi cinque figli che insieme facevano un coro festoso.
Il ricco conte sentendo quei lieti canti si domandava come si potesse essere contenti vivendo così poveramente, lui che, essendo ricco era anche solo, triste, sconsolato ed abbattuto in preda alla più nera solitudine.
Il conte meditava di aiutare il povero calzolaio adottando uno dei suoi figli, promettendo al padre di prendersi cura del bambino allo scopo di carpire un po’ di felicità di quella famiglia.
A quel punto il calzolaio ci pensava e non sapeva quale figlio affidare al ricco castellano perché anche se ne aveva tanti ognuno di loro rappresentava un pezzo del proprio cuore ed il ricordo della loro madre.
La scelta ricadde sul quarto figlio perché essendo più vispo e dotato di fervida immaginazione, nonché di doti artistiche naturali avrebbe potuto, vivendo al castello, ricevere un’istruzione ed un’ educazione che lo avrebbero portato a meglio esprimere il suo talento.
In un grigio mattino della fine del mese di marzo il conte andò a bussare alla porta del povero calzolaio, il quale aveva già raccolto in un liso sacco di tela i pochi indumenti del bambino in partenza per una vita migliore.
Giunto al castello il bambino si avviò a lenti passi verso le sue spaziose stanze, congedò gentilmente la servitù e sedette presso la finestra che si apriva sul verdeggiante parco.
Rimase lì fino a sera, l’aria notturna portava un fresco profumo di fiori e nel silenzio dell’oscurità non si ascoltava che il ritmico passo delle sentinelle che montavano la guardia al castello.
Il piccolo figlio del calzolaio contemplava le stelle che brillavano nel cielo e la calda luce della luna illuminava tutta la tenuta.
Erano già trascorsi due mesi e nel castello il conte non riusciva a respirare alcuna allegria, anzi, il bimbo lontano dalla famiglia non aveva più cantato, rifiutava di imparare gli insegnamenti dei più illustri maestri ed inoltre la sua fantasia aveva smesso di volare impedendogli di continuare a dipingere. Il bambino rimaneva ore davanti alle tele bianche sulle quali il colore colava come lacrime senza alcun risultato , ma il cuore e la mente correvano sempre a casa.
Nel bel mezzo della notte, nascosto nell’ombra della sala, rimase ad attendere …La campana di bronzo della torre antica battè le tre e la porta della stanza del fanciullo si aprì cigolando appena, disegnando sul lindo pavimento di marmo una lunga ed inquietante ombra.
Il bambino attraversò silenziosamente le stanze ornate da tendaggi di broccato rosso, ricche di dipinti ed oggetti di ogni fattura e raggiunse in breve tempo l’uscita di sevizio sul retro della dispensa. Aprì con cautela la porta per non essere udito, attraversò correndo il parco e si inoltrò tra l’ oscurità del bosco. Nella fretta e con l’ansia di tornare in famiglia arrivò senza accorgersene ai bordi di un dirupo e scivolò lungo la scarpata.
I tentativi di risalita furono vani e piangendo rimase in attesa di aiuti. In quel momento iniziava ad albeggiare e nel frattempo al castello la servitù dava l’allarme per la scomparsa del fanciullo.
Il conte fece preparare il suo cavallo, e si precipitò dal padre del ragazzo convinto di trovarlo lì.
A quell’ora il calzolaio aveva già preso a lavorare e la forte angoscia lo pervase nel vedere con quale furia il conte si fermò davanti a lui.
Dopo una breve ed accesa discussione e qualche chiarimento, tutti partirono in diverse direzioni alla ricerca del bambino, e al termine di una estenuante camminata il calzolaio trovò l’amato figlio stremato ed impolverato là dove era caduto.
Il povero calzolaio strinse forte a sé l’impaurito figlio promettendogli che non l’avrebbe più lasciato e anche il conte, giunto nel frattempo, capì che il suo atto d’altruismo in realtà celava amarezza nei confronti della vita e profondo egoismo; propose così al calzolaio di aiutare il bimbo lasciandolo con il padre e i suoi fratelli.
Tornati a casa l’allegria riempì il cuore di tutti. Il bambino riconquistò la spensieratezza che aveva perduto vivendo lontano e i canti festosi della famiglia del calzolaio ripresero a riecheggiare nella sua modesta bottega, la tela tornò a diventare un incontro d’amore e i colori vivaci ripresero a creare forme e sfumature che rappresentavano la gioia di un fanciullo tornato tra la sua gente.
Angelo Gallizia
IL PAPPAGALLO E LA CALA’
C’era una volta un giovane re che viveva felice con la moglie nel regno di Chissà Dove, il quale aveva come buon consigliere un mago molto virtuoso che gli aveva suggerito parole e formule magiche per trasformarsi all’occorrenza in un animale o in un’altra persona con il fine di scoprire imbrogli a corte.
Il sovrano una mattina andò nel bosco accompagnato dal suo braccio destro per una battuta di caccia e visto che alcuna preda incontrava sul suo cammino pensò di pronunciare la formula per trasformarsi in un animale ed attirare così altri animali da cacciare. Prima di far ciò il sovrano suggerì al suo consigliere di corte la contro formula da dire per permettergli di tornare un uomo ed in pochi minuti il re si trasformò in un pappagallo.
Il consigliere accecato dal desiderio di potere non seppe resistere, attese fino a sera e poi fece ritorno al castello portando con sé il pappagallo.
Il consigliere cattivo raccontò alla regina che il marito era morto cadendo in un profondo dirupo ed in poco tempo riuscì con l’inganno a farsi proclamare dal Consiglio di Corte unico sovrano del regno.
Egli era un uomo malvagio e fece tante leggi che colpivano i sudditi impoverendoli e costringendoli a vivere nella paura.
La regina alla notizia della perdita del marito si sentì morire. Stava pensando a come organizzare le ricerche l’indomani al far del giorno quando ad un tratto il pappagallo tutto colorato ma dagli occhi tanto tristi pronunciò la parola “calà”. Al suono di quella parola che solo lei ed il sovrano conoscevano la regina rabbrividì e capì che sotto a tutta quella vicenda si nascondeva l’infedeltà di qualcuno e non un incidente.
La regina uscì dal castello come il vento e seguì la “calà”, le orme sulla neve ancora fresca, perché sapeva che il giorno dopo sarebbe stato troppo tardi e facendosi luce con una lampada ad olio raggiunse il punto del bosco dove le tracce terminavano.
Lì non vi erano dirupi , ma nella neve la regina scorse l’anello tempestato di rubini con lo stemma che poteva essere solo del marito.
A quel punto capì dalle orme sulla neve che il responsabile della sparizione del re poteva essere solo il consigliere perché le uniche tracce erano quelle dei suoi stivali che giungevano fino al castello.
La regina pensò allora di correre subito dal mago affinchè liberasse il re dall’incantesimo, ma quando arrivò alla sua casa vide dal balcone il consigliere armato di cattive intenzioni.
Infatti appena vide entrare la regina si scagliò con il suo pugnale verso il mago per ucciderlo ma quest’ ultimo anche se ferito pronunciò la formula per trasformare il consigliere in una gallina.
La regina prontamente rinchiuse l’animale e si prese cura del mago che per una settimana giacque svenuto e sanguinante.
L’ottavo giorno l’anziano mago rinvenne e rivelando alla regina la contro formula potè restituire al sovrano le sembianze umane.
Quando tutti si ripresero dall’accaduto e visto che avevano corso grossi pericoli, decisero di incidere sulla pietra le formule del mago. Presero una piastrella di ardesia sotto il letto dei sovrani, il mago con pazienza incise le formule e le contro formule ed infine la pietra venne riposta e ben celata.
Vennero subito abolite le leggi imposte dal consigliere cattivo e i due sovrani pensarono di tenere la gallina affinché facesse le uova per sfamare i bambini del regno.
Per fortuna il mago venne a sapere in tempo dei loro propositi e corse al castello per avvertire che chiunque avesse mangiato le uova di quella gallina avrebbe acquisito la stessa malvagia del consigliere.
A quel punto il re, la regina, il mago e tutti i sudditi decisero di tirare il collo alla gallina come punizione al consigliere che aveva portato malvagità, violenza ed inganno nell’intero regno.
Daniele Alessandri
Carmela Bagnasco
Caterina Farnarier
Erminio Moraglia
Angelo Gallizia
LE LACRIME DI SERAFINO
C’era una volta un eremita di nome Serafino che, perduta la famiglia e rimasto solo, decise di ritirarsi in solitudine e rifugiarsi in una grotta nel bosco, lontano da tristi ricordi. Era appena trascorsa l’estate più torrida degli ultimi anni ed i primi colori dell’autunno iniziavano a comparire sulle foglie degli alberi.
Il villaggio da mesi senz’acqua era allo stremo delle forze, la terra degli orti era arida, gli abbeveratoi erano asciutti, le scorte quasi terminate e la gente non aveva più da mangiare e da bere.
Ad un fanciullo del villaggio venne l’idea di incamminarsi nel bosco per mettersi alla ricerca di possibili sorgenti d’acqua o anche solo di qualche ristagno da dove poter attingere il bene più prezioso.
Vagò solo attraverso i boschi per giorni senza però ottenere alcun risultato. Si allontanò di molto dal suo villaggio sino a raggiungere una grande foresta con una sola speranza nel cuore.
Quando fu all’interno di quella grande boscaglia vide enormi rocce che facevano tristezza solo a guardarle.
Gli sembrò di scorgere da un lato l’ingresso di una grotta e pensò, anche se con un po’ di paura, di avvicinarsi.
Quando il ragazzo si trovò davanti all’ingresso, in un momento venne fuori dall’oscurità una persona con una lunga barba bianca e folte sopracciglia che quasi nascondevano il viso.
Il ragazzo iniziò a correre per allontanarsi da quell’uomo che agli occhi di un bambino pareva un gigante. Nella fuga però la radice scoperta di un maestoso castagno lo fece inciampare causando un forte dolore ad una gamba che gli impedì di continuare a scappare.
L’eremita del bosco lo raggiunse e lo avvicinò lentamente senza dire una parola. Il fanciullo cercò di alzarsi trascinandosi sul terreno ma il dolore alla gamba era troppo forte per poter scappare via e così si arrese davanti all’uomo che stava in piedi dinanzi a lui.
“Ti sei fatto male?” chiese l’eremita al ragazzo.
“Mi fa tanto male la gamba“ rispose lui intimorito.
Il vecchio lo prese tra le braccia e si avviò verso la sua grotta.
Dentro l’aria era tiepida, il fuoco ardeva in un focolare di pietra ed una pentola borbottava lì accanto.
Il ragazzo entrando vide un canestro pieno di frutti selvatici, torce di canne sopra la roccia, paglia e foglie secche facevano da pavimento. Serafino, il gentile eremita, offrì al ragazzo una tazza di minestra fatta con ciò che la natura regalava ed intanto uscì a prendere del muschio che strappò dalla parte più umida della roccia per preparare un impiastro da mettere sulla gamba dolorante.
Al ragazzo passò completamente la paura di quell’uomo rude ma tanto premuroso, anzi, si sentiva protetto ed accudito come non gli era mai capitato prima nella vita.
Erano già trascorsi un paio di giorni, i due passavano ore intere a parlare ed a scambiarsi amarezze. Tra loro però c’erano anche momenti di buon umore, quella cosa che aiuta a vivere meglio tanto quando si è in salute quanto quando si è in difficoltà.
Serafino si allontanava dalla grotta solo per cercare del cibo ed il resto del tempo lo trascorreva in compagnia del ragazzo al quale aveva raccontato di sè e della sua vita, mentre lui gli parlava delle difficoltà della sua gente e della disperazione di tutti gli abitanti del villaggio per la siccità.
Un mattino alle prime luci del giorno un gruppo di uomini del villaggio giunse nel bosco visto che ad uno di loro era venuto in mente che poteva essere l’eremita, che si vede di tanto in tanto a valle, a nascondere il fanciullo ed iniziarono a cercarlo nella zona.
Il primo giorno tornarono a casa senza aver concluso niente dandosi appuntamento per l’indomani.
Era ancora buio quando cinque uomini si trovarono nella piazza del paese intenzionati a ripartire, con le prime luci del giorno, verso le montagne.
Quel mattino Serafino si trovò davanti il gruppo di uomini armati di forche, l’istinto lo portò a fuggire fino a raggiungere la zona più folta del bosco, correndo tra cespugli e rovi.
Gli uomini del villaggio lo inseguirono per un tratto, poi tornarono sui loro passi e raggiunsero il ragazzo rimasto alla grotta che gridava in difesa del suo amico Serafino.
Il gruppo del villaggio, nella confusione, non sentì ragioni, prese il ragazzo e lo riportò a casa. Trascorse così tutta la giornata, gli abitanti del paese festeggiarono il ritorno del fanciullo, il quale soltanto verso sera, riuscì ad avere la tranquillità ed il tempo per raccontare tutto alla famiglia.
Intanto, Serafino, amareggiato da ciò che era accaduto e triste perché era rimasto nuovamente solo, senza il suo piccolo amico, fece ritorno alla grotta e per tutta la notte i pensieri non lo lasciarono dormire. Non riusciva a darsi pace pensando a ciò che era successo, al pregiudizio, al fatto che tanto accanimento gli fosse rivolto senza che mai nella vita avesse fatto del male a qualcuno.
L’eremita scoppiò a piangere, un pianto amaro, pieno di rimpianti ed infelicità sino a crollare in un sonno profondo.
Le lacrime furono tante e caddero tra due rocce piene di magia, si infiltrarono nel terreno creando un piccolo ruscello sotterraneo che scendendo verso valle portò acqua al villaggio.
Al mattino Serafino fu svegliato all’improvviso da un calpestio, uscì dalla grotta e vide il suo giovane amico con il padre ed altri abitanti del villaggio.
Avevano portato all’eremita pane, formaggio e vino in segno di amicizia e gratitudine per aver aiutato il loro ragazzo e per scusarsi nell’aver giudicato il pover’ uomo senza conoscerlo ma solo per l’aspetto e per le sue scelte di vita.
A Serafino brillarono gli occhi, il cuore si riempì di gioia e quel giorno fu per tutti una festa.
Di tanto in tanto il giovane ragazzo andava a trovare il suo solitario amico e per Serafino passare in paese non era stato più un problema.
Era felice di andare a salutare tutti gli abitanti sapendo di far parte di una comunità che aveva imparato a volergli bene.
Daniele Alessandri
Angelo Gallizia
IL SEGRETO DELL’ISOLA DEL TIGLIO
Sull’ Isola del tiglio viveva Isaia, il guardiano del faro che passava il suo tempo pescando e una volta alla settimana raggiungeva in barca il mercato della città più vicina per fare provviste. Un giorno, mentre stava navigando per raggiungere la terraferma, una piovra di due metri attaccò l’imbarcazione e la spezzò in due. Isaia riuscì a salvarsi rimanendo attaccato ad un legno della barca e riuscì a tornare sulla sua isola.
Scoprì però una grotta che non aveva mai visitato e che dei banditi utilizzavano come centro di contrabbando di droga. Il guardiano decise di andare ad avvertire la polizia ma non potè perché privo della propria barca. La gente del mercato, non vedendo più arrivare il guardiano, avvertì la guardia costiera di andare a controllare che tutto andasse bene. La guardia costiera giunta sull’isola trovò la grotta dei banditi. Questi per non farsi catturare presero in ostaggio il guardiano e lo nascosero in un angolo della grotta. I banditi furono distratti dalle trattative con la guardia costiera, così Isaia trovò un passaggio segreto costruito dai topi. Seguì una lunga galleria che lo portò alla cantina del suo faro. La guardia costiera riuscì allora a catturare i banditi e a ristabilire la pace sull’isola.
Nei giorni seguenti il guardiano andò nella cantina per chiudere il buco fatto dai topi. Una mattina, osservando la luce passare da una finestra, notò una bottiglia vuota in mezzo alle altre piene di vino. Era chiusa come tutte le altre ma conteneva un foglio. La aprì e ne tirò fuori una mappa di un tesoro che sembrava si trovasse sull’isola. Guardando bene questa mappa si rese conto che c’era un asterisco per indicare il tesoro. Non c’erano indicazioni geografiche ma dei segnali. Inoltre c’era disegnato un albero che Isaia pensò fosse l’unico tiglio dell’isola perché tutti gli altri erano pini marittimi. Raggiunto quest’albero cominciò a scavarvi attorno per vedere se c’era il tesoro sotterrato, ma non trovò niente. Anche questa volta Isaia osservò la luce del sole e notò che indicava un ramo spellato. Seguendo la via che questo segnava raggiunse un pozzo chiuso da una botola. Nel momento in cui il sole colpì perpendicolarmente il punto centrale della botola, questa si aprì. Il guardiano trovò così delle lettere e scoprì che il tesoro non indicava dei gioielli nascosti, ma era in realtà il soprannome con cui un ragazzo chiamava la propria fidanzata. Infatti su quell’isola una volta avevano vissuto due famiglie che avevano rispettivamente un figlio ed una figlia. I due ragazzi si erano innamorati e si lasciavano in quella botola delle lettere perché le famiglie erano in contrasto per diventare padroni dell’isola. Insieme alle lettere Isaia trovò anche due fotografie di questi giovani di nome Rita e Leandro. Lei era una fanciulla minuta di diciannove anni, aveva i capelli neri, corti e con la frangia, gli occhi grigi e sempre sorridenti. Lui aveva venti anni , i capelli riccioli e castani, gli occhi neri ed era alto. Le famiglie di questi due ragazzi erano famiglie di pescatori e facevano lavorare con sé i propri figli. Durante la notte i due ragazzi fuggivano dalle proprie case e andavano a fare lunghe nuotate insieme al chiaro di luna.
Per sei lunghi mesi i due ragazzi continuarono ad incontrarsi di nascosto e a lasciarsi le lettere nella botola. I genitori però lo scoprirono e i due innamorati non si poterono più vedere. I genitori di Rita decisero di andarsene e trasferirsi nel convento dei frati che c’era sull’isola.
Il guardiano del faro, incuriosito da questa storia, decise di andare dall’unico frate che si trovava nel convento, per cercare di scoprire qualcosa di questa storia. Isaia scoprì così che proprio quel frate era Leandro. Il frate era interessato ad incontrare di nuovo Rita. Proprio in quel momento entrò nel convento una persona di circa trent’anni che aveva gli stessi occhi grigi e ridenti di Rita e che Leandro riconobbe come Massimo il fratello della sua innamorata. Massimo riferì di essere stato mandato sull’isola su commissione della sorella che voleva informazioni sul proprio innamorato. In questo periodo Rita non si era più voluta innamorare di nessuno per paura di soffrire ancora. Massimo e Isaia decisero di farli incontrare di nuovo e dopo dieci anni dalla loro separazione i due si poterono rivedere. Pur essendo passato così tanto tempo, Rita e Leandro si resero conto di essere ancora innamorati l’uno dell’altra. Il frate Leandro decise di lasciare i voti così da poter sposare la sua Rita. Si sposarono, andarono a vivere sull’isola e dalla loro unione nacque un bambino che decisero di chiamare Isaia in onore del guardiano che li aiutò a riunirsi nuovamente ed a realizzare così il loro sogno d’amore.
Caterina Farnarier
Erminio Moraglia
Margherita Adar
Pasquale Fioravanti
Angelo Gallizia
Commento alla fiaba
Sull’ Isola del tiglio viveva Isaia, il guardiano del faro che passava il suo tempo pescando e una volta alla settimana raggiungeva in barca il mercato della città più vicina per fare provviste. Un giorno, mentre stava navigando per raggiungere la terraferma, una piovra di due metri attaccò l’imbarcazione e la spezzò in due. Isaia riuscì a salvarsi rimanendo attaccato ad un legno della barca e riuscì a tornare sulla sua isola.
L’eroe di questa fiaba si chiama Isaia come il profeta dell’Antico Testamento. Non sappiamo perché sia stato scelto questo nome ma possiamo immaginare che il nome non sia estraneo al titolo della fiaba, in cui si cela un segreto. Il profeta Isaia è il nome di un personaggio biblico sicuramente sentito in chiesa dagli autori della fiaba. Forse non a caso Isaia subisce un destino simile ma non uguale a quello di Giona, profeta biblico che venne inghiottito da un grande pesce: l’Isaia della fiaba viene infatti attaccato da una piovra mentre era in barca.
L’eroe abita in un’isola cioè in una situazione di isolamento dal mondo ma anche di centratura, di armonia e di equilibrio intorno al proprio asse, rappresentato dal faro, che fa luce nella notte e orienta i marinai. Isaia è il custode di conoscenze, il cui simbolo è la luce, che permettono agli smarriti nelle tenebre di procedere e di evitare gli scogli. Lui è il guardiano che protegge chi viaggia dalle fratture interiori della personalità, dai naufragi, dai pericoli della vita. Isaia ha una solida colonna vertebrale, il faro, è fallico nel senso di forza maschile: faro e fallo hanno la stessa etimologia, rappresentano la forza creativa maschile universale che genera vita, che è feconda sia biologicamente che spiritualmente.
L’isola è una rappresentazione simbolica della soggettività (l’individuo che esce dalla massa, dall’inconscio) che si organizza intorno a un asse, il faro-fallo e l’albero di tiglio, immagini di centralità. Qui una parte della psiche dell’autore è separata dal resto della sua personalità. E’ l’archetipo del Sé, per ora distinto dall’ego e a lui sconosciuto, un punto emergente della coscienza dove sta avvenendo qualcosa che illumina l’autore della fiaba su un elemento che lo riguarda e con cui non era ancora entrato in contatto. In questo caso il faro e il tiglio indicano l’isola come simbolo del Sé che emerge dall’inconscio, un’oasi di pace in mezzo ai temibili vortici dell’inconscio e della vita quotidiana. L’isola è il centro, l’occhio del ciclone.
Per raggiungere il mondo degli uomini, cioè il mercato, il commercio con il mondo, Isaia deve attraversare il mare con una barca una volta alla settimana. Anche qui possiamo ritrovare gli echi dell’Antico Testamento: ricordati di santificare le feste. Una volta alla settimana c’è un giorno sacro, una pausa in cui è presente Dio e in cui ci si deve rivolgere a lui.2 Quindi se Isaia compare fra gli uomini provenendo da un isola che rappresenta l’ordine, la luce, la direzione da prendere, la Via, il Regno dell’Unità e passa il restante tempo della settimana pescando come San Pietro e gli apostoli, è certamente una figura sacra che si incarna una volta alla settimana. Rappresenta quella parte della personalità che abita nel mondo sacro dell’armonia, l’Isola del Tiglio, cioè l’isola del Sé divino, e che raggiunge ogni sette giorni il mercato e la terraferma, dove sta l’ego che commercia con la vita quotidiana. L’Isola del Tiglio giace nell’inconscio, nel mare, è ancora isolata, separata dall’ego, dalla restante parte terrestre della personalità.
Nella fiaba gli autori hanno espresso bene la simbologia del tiglio, pur se inconsapevolmente, associandolo a un’isola e al finale coniugale della storia.
Per i Greci infatti il tiglio è la forma vegetale della ninfa Filira, figlia di Oceano, che viveva nell’isola del Ponto Eusino che porta il suo nome. Filira si unì a Crono che fuggì, sorpreso dalla moglie Rea, sotto forma di stallone. Dall’unione nacque il centauro Chirone, mezzo uomo e mezzo cavallo, che divenne il sacro guaritore grazie alle conoscenze della madre Filira-tiglio, albero dalle potenti virtù medicinali. Per la vergogna di avere generato un mostro Filira chiese a Crono di venire mutata in tiglio. Nel mito greco il tiglio è sacro a Afrodite per la dolcezza del profumo e per l’aspetto, in Lituania per avere buoni raccolti le donne sacrificavano ai tigli, fra i Germani l’albero era sacro a Freia, la dea della fertilità. Nella leggenda di Filemone e Bauci lui si trasforma in quercia, tipico albero maschile, lei in tiglio: in ricordo di questa storia d’amore e di venerazione per gli dei il fiore del tiglio è diventato il simbolo dell’amore coniugale.
Isaia un giorno, mentre sta avviandosi verso il mondo umano, incontra una piovra di DUE metri che spezza la barca in DUE pezzi, incontra cioè il problema della dualità, della divisione, del diavolo (diavolo, in greco dià-ballo, è quell’aspetto della mente che divide in due, che separa, è l’Avversario che genera il conflitto dentro di noi, il dubbio).
La barca, la nave, rappresentano la capacità dell’ego di navigare senza pericoli nelle acque dell’inconscio. Ma la barca ha anche un altro significato: è spesso collegata alla morte. Si pensi a Caronte, che traghetta le anime dei morti verso l’aldilà su una barca o all’Antico Egitto, dove la nave serve alle anime per viaggiare verso la rinascita. La barca quindi può anche significare una traversata in un altro mondo, un viaggio nel paese della morte in cerca di rigenerazione. Questo infatti accade a Isaia e a Giona, una morte iniziatica del vecchio io seguita da una trasformazione della personalità. La morte è il naufragio dell’io, della barca. Con l’io a brandelli Isaia ritorna e penetra in una grotta, simbolo uterino di rinascita.
La piovra è anche il caos che si nasconde nell’abisso del mare, è l’imprigionamento nel potere di forze oscure (non a caso la Piovra è simbolo di qualcosa che irretisce e distrugge, che asservisce a logiche familiari amorali, all’avidità, al potere ottenuto con ogni mezzo, anche l’omicidio).
La piovra è follia, confusione mentale ma anche emozioni selvagge che dissociano l’ego, lo spezzano in due, lo fanno uscire dalla primitiva unità nell’Eden, nell’isola sacra del Tiglio. E’ l’incontro con la mente abissale, con le pulsioni istintuali caotiche e mostruose, con i desideri incontrollati che vivono nell’inconscio di ciascuno di noi e che mettono alla prova l’eroe, rischiando di farlo impazzire (schizofrenia significa mente divisa). Ma è anche l’incontro con il Sacro, il Leviatano.
E’ il lato oscuro dell’Isola del Tiglio, il lato nascosto della Luce, o meglio la nuova fase della Luce che si presenta all’inizio come caos. Ogni cambiamento si presenta all’inizio come caos e morte che sconvolgono l’ordine statico dell’io arrivato al termine di una certa fase della vita.
Infatti dopo l’incontro con la piovra Isaia, come Giona sputato dal pesce, avvinghiato a un pezzo di legno, ricordo dell’unità perduta dell’io, frammento dell’albero dell’isola che gli permette di galleggiare sulle acque abissali e superare la prova del mostro, scopre una nuova parte di se stesso prima inconscia, penetra maggiormente in profondità nella conoscenza di sé, trova una grotta.
Scoprì però una grotta che non aveva mai visitato e che dei banditi utilizzavano come centro di contrabbando di droga. Il guardiano decise di andare ad avvertire la polizia ma non potè perché privo della propria barca. La gente del mercato, non vedendo più arrivare il guardiano, avvertì la guardia costiera di andare a controllare che tutto andasse bene. La guardia costiera giunta sull’isola trovò la grotta dei banditi. Questi per non farsi catturare presero in ostaggio il guardiano e lo nascosero in un angolo della grotta. I banditi furono distratti dalle trattative con la guardia costiera, così Isaia trovò un passaggio segreto costruito dai topi. Seguì una lunga galleria che lo portò alla cantina del suo faro. La guardia costiera riuscì allora a catturare i banditi e a ristabilire la pace sull’isola.
Nei giorni seguenti il guardiano andò nella cantina per chiudere il buco fatto dai topi. Una mattina, osservando la luce passare da una finestra, notò una bottiglia vuota in mezzo alle altre piene di vino. Era chiusa come tutte le altre ma conteneva un foglio. La aprì e ne tirò fuori una mappa di un tesoro che sembrava si trovasse sull’isola. Guardando bene questa mappa si rese conto che c’era un asterisco per indicare il tesoro. Non c’erano indicazioni geografiche ma dei segnali. Inoltre c’era disegnato un albero che Isaia pensò fosse l’unico tiglio dell’isola perché tutti gli altri erano pini marittimi. Raggiunto quest’albero cominciò a scavarvi attorno per vedere se c’era il tesoro sotterrato, ma non trovò niente. Anche questa volta Isaia osservò la luce del sole e notò che indicava un ramo spellato. Seguendo la via che questo segnava raggiunse un pozzo chiuso da una botola. Nel momento in cui il sole colpì perpendicolarmente il punto centrale della botola, questa si aprì.
Isaia scopre una nuova parte della sua personalità che prima era inconscia dopo essere stato quasi spezzato in due dalle forze mostruose abissali. In questa parte, la grotta, abitano i suoi lati oscuri, i banditi che spacciano droga, i suoi desideri di trasgressione mai riconosciuti e accettati dalla sua legge interiore, la polizia. Questa legge è ormai inefficace, non c’è più l’ego di prima che possa richiamarla, la barca è affondata, il vecchio modo di vivere è affondato. Anche la guardia costiera, altra espressione della legge, più vicina al mare, cioè all’inconscio, alla piovra e quindi anche ai banditi fallisce nella cattura, anzi entra in trattative con loro, che sono parte della nuova personalità di Isaia e lo devono condurre al suo tesoro interiore che prima erano loro a custodire.
I topi, altro classico simbolo fallico perché penetrano nei buchi delle case e scavano le gallerie col muso, lo aiutano e lui ritorna nella cantina del faro, nella radice oscura della luce. Per i greci i topi erano animali sacri a Apollo, dio della luce, il sole. Apollo significa ‘colui che non ruota’, a-polòs, senza polo, senza rotazione: è cioè un perno, un asse centrale che sta immobile come il mozzo della ruota, come il faro. Quindi il topo è il lato oscuro e animale del sole-Apollo, detto altrimenti: la sessualità, il topo nella cantina del faro, è il lato infero della luce, della coscienza spirituale.
Arrivato in fondo alla cantina, quindi nei recessi più oscuri di sè, si accorge della presenza sia del vino sia della luce che penetra, tutte immagini dello spirito maschile che penetra nel lato femminile della personalità ( l’immagine del vino come Spirito ci può rimandare sia alle nozze di Cana sia all’Eucarestia). A quel punto è possibile scoprire un messaggio che rimanda sia al tiglio che a un pozzo chiuso da una botola. Il particolare dell’immagine del ramo spellato, cioè di una ferita a livello della pelle quindi visibile, permette di aprire il pozzo: le proprie ferite psicologiche ci permettono di trovare la via per il rinnovamento. La botola del pozzo si apre solo quando il sole ne colpisce perpendicolarmente il punto centrale, la luce sblocca l’ostacolo che impediva l’accesso alle energie spirituali e vitali.
L’immagine di togliere la pietra dal pozzo è un’immagine biblica classica perché quando Giacobbe incontra Rachele e si innamora di lei il primo atto che fa è togliere la pietra dal pozzo in cui lei portava le pecore all’abbeverata. Questo significa che nel momento in cui l’Io trova la sua anima diventa di colpo possibile, attraverso la forte emozione e la passione, l’accesso alla sorgente della vita e della personalità, alle proprie energie spirituali e vitali del profondo essendo stato rimosso un ostacolo, un blocco psichico che prima le ostruiva.
Anche il Cristo incontra la Samaritana vicino ad un pozzo e gli offre l’acqua della vita grazie alla quale non avrà più sete, in questo caso è la sorgente dell’acqua della vita eterna che viene trovata, ma il senso è il medesimo.
Il guardiano trovò così delle lettere e scoprì che il tesoro non indicava dei gioielli nascosti, ma era in realtà il soprannome con cui un ragazzo chiamava la propria fidanzata. Infatti su quell’isola una volta avevano vissuto due famiglie che avevano rispettivamente un figlio ed una figlia. I due ragazzi si erano innamorati e si lasciavano in quella botola delle lettere perché le famiglie erano in contrasto per diventare padroni dell’isola. Insieme alle lettere Isaia trovò anche due fotografie di questi giovani di nome Rita e Leandro. Lei era una fanciulla minuta di diciannove anni, aveva i capelli neri, corti e con la frangia, gli occhi grigi e sempre sorridenti. Lui aveva venti anni , i capelli riccioli e castani, gli occhi neri ed era alto. Le famiglie di questi due ragazzi erano famiglie di pescatori e facevano lavorare con sé i propri figli. Durante la notte i due ragazzi fuggivano dalle proprie case e andavano a fare lunghe nuotate insieme al chiaro di luna.
Per sei lunghi mesi i due ragazzi continuarono ad incontrarsi di nascosto e a lasciarsi le lettere nella botola. I genitori però lo scoprirono e i due innamorati non si poterono più vedere. I genitori di Rita decisero di andarsene e trasferirsi nel convento dei frati che c’era sull’isola.
Il guardiano del faro, incuriosito da questa storia, decise di andare dall’unico frate che si trovava nel convento, per cercare di scoprire qualcosa di questa storia. Isaia scoprì così che proprio quel frate era Leandro. Il frate era interessato ad incontrare di nuovo Rita. Proprio in quel momento entrò nel convento una persona di circa trent’anni che aveva gli stessi occhi grigi e ridenti di Rita e che Leandro riconobbe come Massimo il fratello della sua innamorata. Massimo riferì di essere stato mandato sull’isola su commissione della sorella che voleva informazioni sul proprio innamorato. In questo periodo Rita non si era più voluta innamorare di nessuno per paura di soffrire ancora. Massimo e Isaia decisero di farli incontrare di nuovo e dopo dieci anni dalla loro separazione i due si poterono rivedere. Pur essendo passato così tanto tempo, Rita e Leandro si resero conto di essere ancora innamorati l’uno dell’altra. Il frate Leandro decise di lasciare i voti così da poter sposare la sua Rita. Si sposarono, andarono a vivere sull’isola e dalla loro unione nacque un bambino che decisero di chiamare Isaia in onore del guardiano che li aiutò a riunirsi nuovamente ed a realizzare così il loro sogno d’amore.
Il tesoro trovato è un NOME, che è il Verbo, il Sé, che è androgino: infatti dentro al pozzo venivano scambiati i messaggi dei due giovani amanti, Rita e Leandro.
In questo senso si vede come la qualità del pozzo sia mercuriale proprio per via dei messaggi, della comunicazione e dell’unione. L’acqua simbolica dell’inconscio profondo è analoga al mercurio, metallo liquido e dio della comunicazione fra coscienza e inconscio: l’ego, centro della coscienza, beve l’acqua del pozzo, dell’inconscio che sta sotto la terra, sotto la superficie della realtà, per vivificarsi.
Una volta che Isaia scopre le immagini dei due amanti che prima erano bloccate, sigillate dentro di sé, riesce a liberare dalla prigionia del convento il suo lato maschile, Leandro, vittima evidentemente di un’educazione repressiva che lo ha allontanato sia dalla propria sessualità che dal suo lato femminile, Rita.
A quel punto Isaia riesce a riunire, dopo dieci anni, che rappresentano un ciclo compiuto, i due lati della sua personalità, la coscienza e l’inconscio, il maschile ed il femminile, l’anima (Rachele, la Samaritana, Rita cioè l’anima di Isaia) e il Logos (Giacobbe, il Cristo, Leandro, lo spirito rinchiuso nel convento, nella cantina, nella bottiglia, nel pozzo e che voleva uscire per ritrovare l’anima, il lato femminile e riflessivo di Isaia) che fusi formano il Sé, l’albero del tiglio, l’albero dell’unione degli opposti. Trovata l’unità della personalità rappresentata dal matrimonio di Leandro e Rita, l’isola viene rivivificata attraverso la nascita della nuova personalità di Isaia, un bambino che porta il suo stesso nome. La favola quindi si conclude con una quaternità che rappresenta l’unità della personalità formata sia dall’unione del maschile e del femminile che del vecchio e del bambino, Isaia Senex e Isaia Puer: il vecchio spirito e il nuovo spirito.
IL VENDITORE DI CASTAGNE
C’era una volta arroccato tra le montagne vestite d’autunno, il paese di Rio Freddo, poche case costruite in pietra e legno che abbracciavano la piazza a lato della quale c’era l’unico negozio di commestibili e tabacco. Ogni famiglia coltivava l’orto ed allevava gli animali per avere carne, latte e formaggio. Ogni stagione offriva agli abitanti di Rio Freddo tutto ciò che serviva per sfamarsi e questo era il periodo che impegnava tutti nella raccolta dei funghi e soprattutto delle castagne. Ogni famiglia aveva il suo bosco e grandi e piccini ogni giorno andavano con canestri e sacchi a raccogliere i frutti dell’autunno che avrebbero dato loro da mangiare durante l’inverno. Di tutto il raccolto una parte veniva venduta al mercato ed una parte veniva portata a casa per essere consumata subito o fatta essiccare e conservata. Chi poteva permetterselo aveva “u canissu”, l’essicatoio in pietra con un ripiano di canne posto in alto, costruito vicino a casa. Le castagne appena portate dal bosco venivano distribuite sul ripiano di canne sotto al quale era stato acceso un fuoco con legna e con “u rùscu”, la buccia esterna delle castagne raccolte l’anno precedente affinché il calore rimanesse costante ed il fuoco non diventasse troppo forte altrimenti le castagne sarebbero diventate rosse e quindi invendibili o poco pagate.
In molti l’essicatoio lo avevano sopra il focolare di casa in modo da essicare le castagne mentre cucinavano. Una volta pronte ma ancora tiepide, le castagne venivano messe in sacchi di stoffa molto resistenti e battuti con forza su di un ceppo affinché “u rùscu” e la “camiscetta” si staccassero facilmente; le castagne restavano così belle pulite e bianche. Per prolungare il più possibile la freschezza delle castagne appena raccolte si faceva invece la “novena”…. Tutte le mattine per nove giorni si cambiava l’acqua alle castagne, si scolavano bene, si facevano asciugare al sole e poi venivano riposte in una cesta rivestita con foglie di castagno asciutte pronte per essere conservate sino in primavera. Questo prezioso frutto veniva dato anche agli animali nel “beverun”, un minestrone sostanzioso e saporito a base di patate, rape, buccia di fagioli secchi e naturalmente castagne.
Una volta a settimana i carri partivano di buon ora da Rio Freddo verso il mercato della città vicina e da lì i prodotti venivano venduti e smistati verso varie destinazioni.
Quella mattina alle sei al mercato di Porta Palazzo c’era Tommaso, un brav’uomo definito da tutti un sempliciotto che per sfamare la sua famiglia vendeva caldarroste agli angoli delle vie e per pochi soldi ma con tanta volontà sfidava le gelide e cupe giornate torinesi per scaldare il cuore dei passanti con un cartoccio di castagne. Tommaso ogni giorno sistemava il bidone di ferro dentro al quale accendeva il fuoco e sopra poneva una grossa padella bucata nella quale sistemava le castagne dopo averle tagliate con cura una ad una. Un gruppetto di ragazzi benestanti ma annoiati dal troppo avere, ebbe l’idea di trascorrere il tempo schernendo e facendo dispetti al pover’uomo delle caldarroste.
Un giorno gli rubarono tutta la legna che serviva per accendere il fuoco sotto alle castagne impedendo a Tommaso di lavorare, il giorno dopo gli bagnarono tutti i giornali che avrebbe utilizzato per fasciare le caldarroste ai clienti, fino a raggiungere il culmine della cattiveria un paio di mesi più tardi, in prossimità delle feste di Natale, quando una sera derubarono tutto l’incasso della giornata a Tommaso, il quale provò a rincorrere i ragazzi che troppo svelti si allontanarono tra la nebbia e le luci della città. Nella fretta e con la paura di essere scoperti uno di loro cadde, gli amici tentarono di rialzarlo subito ma nel trambusto il fazzoletto di cotone a quadri bianchi e blu con dentro i soldi del venditore di castagne cadde a lato della strada proprio sotto il marciapiede. Solo al mattino successivo un calzolaio-lustrascarpe mentre sistemava il suo banchetto notò quel fazzoletto e pensando che un pezzo di stoffa potesse sempre tornargli utile si chinò a raccoglierlo. L’anziano lustrascarpe non nascose a sé stesso la felicità di quel ritrovamento che avrebbe potuto evitargli il lavoro di una giornata e pensò di mettere al sicuro il gruzzoletto dentro ad un paio di scarpe di cuoio che aveva appena finito di riparare. Le ore trascorsero veloci fino a che nel tardo pomeriggio venne a ritirare le scarpe che aveva lasciato a Giovanni il calzolaio, un signore distinto, ben vestito e gentile. Il povero Giovanni, al quale la memoria aveva cominciato a fare brutti scherzi, non ricordò di aver nascosto i soldi e così consegnò con fierezza le scarpe rimesse a nuovo e ben lucidate all’ignaro proprietario che pagò due lire e si incamminò verso casa. Era domenica mattina quando il conte Ludovico, dopo aver indossato l’abito migliore prova a mettere le scarpe per andare a Messa con la famiglia ma visto che non riusciva ad infilare il piede destro passò una mano nella punta della calzatura e trovò le monetine. Il conte pensò subito di portare con sé il fazzoletto con i soldi per consegnarli al Frate Cappuccino che durante la celebrazione della Santa Messa chiese se qualcuno dei presenti avesse smarrito quei soldi. In chiesa vicino al conte c’era seduto uno dei suoi figli che sentendo le parole del Padre Cappuccino impallidì sino a sentirsi svenire. In quel momento il ragazzo non osò dire nulla sia per il timore di fare una pessima figura davanti a tutti che per evitare l’imbarazzo alla sua rispettabile famiglia. Dopo una notte insonne, turbato dal rimorso, il giovane nobile decise di confessare tutta la verità al conte suo padre. In silenzio e con attenzione il nobile signore ascoltò senza riuscire a credere alle sue orecchie e decise di andare subito con il figlio a cercare l’uomo delle caldarroste per risarcirlo del furto.
Quando, dopo due giorni trovarono Tommaso, l’uomo era tutto infreddolito all’angolo di via Po con Corso Regina Margherita. Il venditore di castagne era intento nel suo lavoro ma con molta tristezza nel cuore per ciò che gli era accaduto e soprattutto perché quel furto gli aveva impedito l’acquisto di una mucca che avrebbe provveduto al latte per i suoi figli ancora piccoli. Il ragazzo con un cenno indicò l’uomo al conte Ludovico che lo avvicinò con grande rispetto mentre con uno spintone mandò avanti il figlio affinché si scusasse e
restituisse il maltolto. Quando Tommaso vide il fazzoletto capì che gli stavano restituendo quei soldi che gli erano necessari per dare cibo ai suoi figli ma non solo, il conte sentita tutta la storia di quell’uomo gli offrì addirittura un lavoro come custode della sua tenuta mentre la moglie Giuseppina divenne la cuoca del palazzo dando così al figlio una bella lezione su cosa significasse essere nobili d’animo.
Rosalba Gerini
Carmela Bagnasco
Filippina Denegri
Daniele Alessandri
Margherita Adar
Giacomo Magaglio
Caterina Farnarier
Ada Oddone
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I RINTOCCHI DELLA VERITA’
C’era una volta un vecchio contadino che abitava in un piccolo villaggio perso tra le montagne al confine con la Svizzera. Le case di pietra erano semplici e accoglienti, nella piazza c’erano due castagni sotto i quali le donne si mettevano a lavorare a maglia, le vie erano poche e larghe, c’erano tanti meli e noccioli e l’acqua zampillava da una fontana ricavata da un pezzo di ardesia.
Quando c’era un temporale che minacciava il raccolto, per esorcizzare ed allontanare un eventuale disastro, il vecchio Antonio, detto Tunin, correva all’alto campanile di pietra della chiesa situata al centro del paese e suonava con insistenza per dieci minuti la campana più grossa esposta a levante. Il cielo era scuro, nell’aria risuonava un’agonia che metteva i brividi, una morsa prendeva allo stomaco, tutti cercavano riparo nelle loro case e chi si trovava ancora nei campi si rifugiava in qualche “casella”di campagna e iniziava a pregare per scongiurare il peggio.
Un bambino del paese ricorda ancora che si trovava sotto un pergolato e il padre gettò un sacco sulla giara nella quale la madre aveva piantato l’origano. Quella fu l’unica cosa che si salvò di tutto il raccolto perché una forte grandinata giunse all’improvviso su orti e campi e la fatica di mesi di lavoro venne ricoperta da chicchi tondi come noci. Anche quella volta Tunin salì sul campanile per compiere il suo rito ed allontanare il temporale, ma un fulmine lo colpì e svenne. Mentre era a terra sognò di essere su una nave di pirati che assediavano altre navi, rubavano ai ricchi e rapivano le belle ragazze. Mentre stava passeggiando sul pontile, Tunin trovò uno scrigno contenente brillanti, collane di perle, anelli con diamanti incastonati e un paio di orecchini che richiamarono la sua attenzione perché avevano incise le iniziali del nome della madre e osservandoli attentamente li riconobbe come suoi. Tunin chiese informazioni ad un pirata sulle origini di quegli orecchini e gli raccontò la storia di un conte ambasciatore fiorentino che si era trasferito in Brasile. Lì conobbe una donna che sposò ed alla quale regalò quel paio di orecchini. A questo punto Tunin si risvegliò e andò dalla persona più anziana del villaggio, che aveva 107 anni, per chiedere spiegazioni sulla sua storia e sui suoi ricordi che continuavano a tornare alla mente. Quella donna lo aveva cresciuto e tenuto sempre con sé come un figlio e Tunin, divenuto ormai vecchio, aveva il desiderio di conoscere la verità. Con un filo di voce la donna iniziò a raccontare del Brasile, della madre morta quando lui era ancora piccolissimo, del fatto che suo padre l’ambasciatore non lo aveva voluto perché nato da una relazione fuori dal matrimonio e così fatto ritornare ed affidato ad una sorella della sua governante che viveva in Italia.
L’anziano contadino decise allora di andare a Firenze per cercare ulteriori informazioni sulle proprie origini. Suonò alla porta della villa che gli avevano indicato essere della sua famiglia e gli aprì una cameriera di nome Lucia. Lei lo invitò ad entrare e davanti ad una fumante tazza di tè gli spiegò che tutta la famiglia era venuta a mancare per un’epidemia di peste, che lui era l’ultimo componente ancora in vita e che quindi aveva ereditato quella ricca villa.
Tunin trascorse allora alcuni giorni a contatto con Lucia, una donna simpatica, socievole, faceva bene da mangiare, semplice, e pur non essendo più giovane e bella era comunque attraente per il suo modo di fare. Tunin allora decise di trasferirsi a Firenze e di passare la propria vecchiaia insieme alla cameriera della quale con il tempo si innamorò.
Daniele Alessandri
Maria Vittore
Caterina Farnarier
Erminio Moraglia
Margherita Adar
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LA CASCINA DEL CAMPO DEL LAGO
Nella tranquilla valle di Brizorena c’era una cascina circondata da secolari alberi di castagne, sulla destra un ruscello d’acqua limpida dissetava e dava la possibilità alle tre famiglie che vivevano nel circondario di fare il bucato ed innaffiare gli orti.
In quel luogo ogni famiglia aveva in affitto le case e lavorava per il padrone dei terreni che aveva in uso. La famiglia di Manin aveva il compito di occuparsi della fienagione, dei muli e dei trasporti; a pochi metri, al di là del ruscello, vivevano Petrin e Paolina con le loro due figlie che si occupavano della coltivazione degli ortaggi e della cura dei vigneti ed un po’ più a monte c’erano Vittorio e Clorinda con sei figli che si occupavano di otto mucche, poche pecore, un maiale ogni anno e coltivavano davanti a casa un campo di grano “quarantin” che dava il pane per tutti.
Era una tarda mattinata di luglio e Vittorio si apprestava a mietere il grano; aveva ben spazzato l’aia della cascina e da un bidone stava versando lo sterco di vacca lasciato macerare in acqua per un giorno e una notte.
Lo stendeva per bene con una scopa di betulla per ottenere così un pavimento pulitissimo.
Il grano appena tagliato si lasciava riposare nel campo mezza giornata e poi ogni covone veniva chiuso dai legami e successivamente con otto-dieci covoni formava i “capalli” che copriva con un telo per ripararli dall’umidità.
Li lasciava al sole per tre o quattro giorni e poi Vittorio caricava sul carro, trainato dalla mucca Pastora, il mucchio di covoni e si incamminava verso casa.
Arrivato all’aia della cascina riformava i “capalli”. Il grano veniva poi battuto su un ceppo di castagno e mentre gli uomini lo battevano, le donne lo “valavano”; il grano rimaneva nel cesto di vimini con due manici usato per questa operazione, mentre l”urba” cadeva a terra. I chicchi puliti venivano messi nei sacchi e successivamente Vittorio li allargava in una stanzetta affinché non si scaldassero e periodicamente si andava al mulino di Licin per avere la farina e la crusca per gli animali.
Le tre famiglie che erano lì si aiutavano e si scambiavano il tempo per svolgere le varie attività.
Alla sera dopo cena ci si riuniva tutti insieme a “veggià” e al gruppo del campo del lago si aggiungevano altri contadini delle terre vicine.
Vittorio aveva la buona abitudine di portare un cestino di mele selvatiche che offriva ai bambini e agli adulti del gruppo. Quella sera l’aria era molto tiepida e le lucciole scintillavano nella campagna circostante. C’era chi giocava a carte, le donne lavoravano a maglia ed i vecchi raccontavano fiabe fantastiche che facevano sognare i bambini.
Le favole che raccontavano duravano anche tre sere. In quella occasione, dopo pochi minuti di silenzio, l’anziano Beppe iniziò a narrare catturando l’attenzione dei nove bambini presenti che si divertivano a rincorrere le lucciole.
“C’era una volta un gruppo di cinque bambini che una sera mentre il grano era maturo si divertiva a prendere le lucciole ed a rinchiuderle dentro una scatolina delle caramelle. Giocando a rincorrersi andarono oltre i campi e non si resero conto che il buio del bosco li aveva portati molto distanti da casa.
Dopo poca strada percorsa nell’oscurità si accorsero di essersi smarriti e cercarono di non perdersi di vista tenendosi per mano e provando a ritrovare la via smarrita. All’improvviso si trovarono davanti ad un insieme di grandi pietre ricoperte di muschio e da una fessura si intravedeva la luce calda di un fuoco ardente.
Incuriositi si avvicinarono per sbirciare e videro dentro a questa grotta un uomo alto e robusto intento a mettere in un grosso pentolone dei gioielli a fondere per poter rivendere l’oro.
Si era sentito tanto parlare di questo ladrone dei boschi che derubava i più ricchi ma nessuno era mai riuscito ne a vederlo e tanto meno a catturarlo.
I ragazzini osservata la scena capirono subito di chi si trattava; capirono di trovarsi in una situazione molto pericolosa e decisero di andar via.
Mentre si allontanavano uno di loro salì sopra un ramo secco ed il rumore attirò l’attenzione del ladro.
Uscì come il vento da dentro il suo rifugio e rincorse i bambini che iniziarono a correre da destra a sinistra intimoriti dall’uomo e dal buio della notte.
Nella confusione riuscirono comunque a restare abbastanza vicini e si nascosero tra i cespugli e dietro agli alberi per evitare il peggio; restarono lì in silenzio nell’attesa che il bandito si allontanasse.
Al più piccolo del gruppo venne in mente, vedendo la tasca dei pantaloni brillare, di avere con sé la scatola con le lucciole; pensò così di liberare le piccole bestiole, le quali furono ben felici di aiutare i bambini a ritrovare la via di casa dirigendosi verso i campi di grano.
A notte inoltrata giunsero a casa, i genitori preoccupati li rimproverarono ma l’indomani, dopo aver scontato la punizione, raccontarono la loro avventura e così i contadini armati di bastoni andarono a caccia del bandito.
La notte successiva lo trovarono nella grotta intento a preparare le sue poche cose per fuggire ma i contadini lo presero e lo portarono dal marchese, padrone delle loro terre.
Il ladro dei boschi venne punito, il marchese ringraziò i suoi contadini decidendo di abolire le tasse più pesanti e tutti poterono così lavorare con più tranquillità grazie ai loro bambini.
Tutti furono felici per quel lieto fine e promisero da quel giorno in poi di trattare con più rispetto ed amore le amiche lucciole”.
I bambini sentito questo racconto poterono riflettere sull’inutilità del loro gioco e da quella volta lasciarono libere le lucciole di illuminare le calde notti d’estate.
Angelo Gallizia
Ada Oddone
Adelina Moreno
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LA “BASURA” DI CIAN BON E LA PIETRA MAGICA
C’era una volta e più precisamente nel 1850, una tranquilla frazione chiamata Cian Bon, un gruppo di poche case costruite in pietra ed argilla immerse tra il verde dei boschi ed alberi di ciliegie.
Lì le giornate scorrevano lente e sempre uguali, si lavorava sodo nei campi e come in ogni piccolo centro abitato che si rispetti si trovava sempre il tempo per potersi interessare dei fatti degli altri (cèti) e soprattutto controllare che ogni persona del luogo avesse una condotta condivisa da tutti.
Però a Cian Bon abitavano due fratelli certamente un po’ strani e per questo sempre al centro delle chiacchiere del paese che giorno per giorno alimentavano la diffidenza.
Lei era Genoveffa, una signora dai capelli color rame raccolti in una grossa treccia lasciata cadere sulle spalle.
Portava sempre un vestito lungo di velluto marrone stretto in vita che snelliva ancor di più la sua già esile figura, una camicia scozzese ed un paio di scarpe di cuoio nero molto basse anche perché la sua statura era veramente insolita per l’epoca.
Il fratello si chiamava Orazio, un bell’uomo dai capelli brizzolati, alto, snello e dal portamento signorile.
Vestiva con una giacca alla cacciatora, un paio di pantaloni di velluto a costine sottili ed un berretto che gli regalava un tocco di eleganza e personalità in più.
La stranezza più evidente che caratterizzava questi due fratelli era il fatto che durante la giornata raramente uscivano di casa mentre con l’imbrunire si avviavano verso il bosco muniti di un canestro intrecciato con rami di nocciole, con il fondo in castagno perché più resistente. Riempivano “u cavagnu” (il canestro) di pane, formaggio e vino, “tea de pin” (pezzetti di rami o radice di pino dai quali usciva la resina, una sostanza molto infiammabile che i due accendevano all’occorrenza per avere un po’ di luce e fuoco), un falcetto leggero e dei pacchettini di tela per metterci dentro foglie, fiori, bacche e radici utili per comporre unguenti, tisane ed impiastri medicamentosi.
Dalle case di Cian Bon si potevano vedere ogni notte strani fenomeni nel bosco di faggi di Ziogna; erano luci che meglio si potevano scorgere quando c’era la luna piena e pareva si muovessero quando il vento agitava le foglie degli alberi.
In realtà quando parte del tronco del faggio marcisce si creano particolari gas che a contatto con l’aria si illuminano, ma a quel tempo ciò pareva davvero strano; gli abitanti della frazione pensavano che Genoveffa ed Orazio ne fossero la causa e le circostanze alimentavano credenze fantastiche e storie di stregoneria.
Era la fine di giugno quando una mattina di buon’ora zia Isolina si incamminò verso il bosco in cerca di mirtilli, lamponi, fragoline e tutto ciò che il sotto bosco poteva offrire da rivendere all’emporio del paese.
Quel giorno decise di cambiare strada e si incamminò attraverso un sentiero di montagna impervio, pieno di erbacce e rovi che creavano qualche difficoltà a zia Isolina che non aveva di certo più vent’anni.
In questo luogo così poco battuto Isolina in pochi minuti riempì il suo canestro di mirtilli e fragole e così pensò di perlustrare un po’ la zona per tornarci una prossima volta. Ad un tratto si ritrovò ai piedi di una montagna che pareva sorretta da pietra dura (lavregu) e per alcuni tratti rocciosa (sgrottu); notò in lontananza una strana luce e ne venne incuriosita, si avvicinò con diffidenza e senza riuscire a crederci si trovò riflessa in una pietra lucida e levigata come uno specchio.
Al momento rimase sbigottita, impaurita e si diede alla fuga dimenticando anche il suo cesto di frutta.
Tornata al paese raccontò subito la sua avventura agli altri cianbonesi i quali non persero l’occasione per attribuire questo nuovo strano fenomeno ai due fratelli.
Un gruppetto di tre-quattro persone decise al tramonto di appostarsi nei pressi della pietra magica per rendersi conto se veramente Genoveffa ed Orazio avessero a che fare con questo insolito specchio. Durante l’attesa tentarono più volte di staccare questa pietra dalla montagna ma naturalmente senza alcun successo. Ad un tratto, avvertendo dei rumori, si nascosero tra i cespugli ed osservarono in silenzio: videro i due fratelli come per incanto spostare senza alcuna fatica la pietra ed inoltrarsi all’interno dell’oscurità di una grotta.
Genoveffa ed Orazio nelle notti di luna piena si recavano in questo luogo consacrato alla conservazione ed allo studio delle piante che potevano essere utilizzate in medicina.
Lì vi erano conservate delle antiche tavole di pietra sulle quali erano incise pozioni ed antichi rimedi naturali che i due fratelli avevano ereditato dalla madre la quale ancor prima li ereditò dalla nonna.
Il gruppo di abitanti di Cian Bon, con una mossa a sorpresa, si intrufolarono nella grotta ed aggredirono i due fratelli con l’intento di distruggere tutto ciò che si trovasse in quel luogo considerato malefico.
Purtroppo riuscirono nel loro intento riducendo in mille pezzi le preziose ricette incise sulla pietra; questo affronto provocò una profonda rottura degli equilibri creati nei secoli, testimoniati dalla pietra levigata dalle intemperie e dal tempo.
Tutto ciò causò una sorta di maleficio scatenato dalla diffidenza e dall’ignoranza della gente portando un’epidemia di influenza.
Pareva proprio che le forze degli inferi si fossero scatenate sul paese e tutti gli abitanti si ammalarono pesantemente rischiando la vita. La notizia ben presto volò veloce verso i paesi vicini; tutti si guardarono bene dal portare il proprio aiuto ai cianbonesi tanto che persino il medico evitò di passare da quelle parti.
Genoveffa ed Orazio sapendo di poterli aiutare lasciarono da parte i rancori e cercando di ricordare ciò che era scritto sulle tavole misero in pratica la loro conoscenza. Cominciando a curare i più disperati che non avevano più nulla da perdere a sperimentare le cure della “basura”, ottennero pian piano la fiducia di tutti gli abitanti di Cian Bon che poterono riflettere sulla stupidità dei loro comportamenti e ricredersi.
Dopo un po’ di tempo il paese riprese i ritmi della normalità. Genoveffa ed Orazio furono capiti ed apprezzati dagli altri abitanti, i quali si offrirono di aiutare i due strani ma disponibili fratelli a ricostruire ciò che avevano distrutto ed in poco tempo le tavole furono nuovamente scolpite e riposte all’interno della grotta che divenne il luogo di cura per tutti i cianbonesi.
Ada Oddone
Angelo Gallizia
Caterina Viola
Giovanni Beghelli
Erminio Moraglia
Ennio Augeri
Adelina Moreno
Commento alla fiaba
In un contesto molto conformista troviamo la presenza di questi due fratelli che spiccano per le loro caratteristiche sia fisiche che di comportamento. Lei è alta con i capelli rossi, lui è snello, alto, dal comportamento signorile. I due sembrano vivere più di notte che di giorno e i loro strumento sono di legno di nocciòlo (Mab, la regina celtica delle fate, viaggia su una carrozza ricavata da un guscio di nocciola e invia i sogni agli uomini3, Mab è la dea che abita nella pianta di nocciòlo che è anche l’albero che ha aiutato Cenerentola a sposare il principe e a accecare le sorellastre invidiose…)
Usano il falcetto e pacchetti di tela per raccogliere fiori foglie ecc… tutti strumenti tipici degli antichi druidi celtici. A loro viene attribuita dagli abitanti del paese la presenza delle luci e dei fuochi fatui che si accendono nel bosco di notte in mezzo ai faggi. I due fratelli quindi vivono immersi nella profondità del bosco di notte e riescono ad illuminarlo ed a cercare ciò che gli serve, sembrano quindi due rappresentanti delle forze della natura personificate.
Essi vivono all’interno di una grotta la cui porta è una pietra lucidata e levigata come uno specchio che rappresenta la nostra capacità riflessiva, la capacità di riflessione che dà così fastidio agli abitanti della valle che non ci sono abituati. I due fratelli, che si recano nelle notti di luna piena in questa grotta, sono invece i due sciamani che conoscono il linguaggio dell’anima rappresentata dalla luna e dallo specchio e sono capaci di muoversi anche nell’aldilà, cioè al di là dello specchio come Alice nel paese delle meraviglie. Sono i rappresentanti delle conoscenze tradizionali ereditate dagli antenati liguri, conoscenze incise nelle tavole di pietra che qui rappresentano la conoscenza assoluta presente nell’inconscio, nel Sé, nel centro inconscio della personalità. Questa pietra possiede una conoscenza che infastidisce molto la personalità mondana e l’ego diurno perché è troppo oscura. Per questo l’ego si scaglia contro di loro, contro questo aspetto della personalità rappresentato dalla pietra (…la pietra scartata dai costruttori di evangelica memoria).
Questo rivoltarsi contro il proprio Sé profondo provoca una rottura, un conflitto interiore e la malattia della personalità. La ribellione ai due fratelli, che sono il lato oscuro degli abitanti del paese, induce uno stato depressivo grave. Soltanto la resistenza d’animo di queste forze tradizionali (i due fratelli) e il recupero delle conoscenze tradizionali del passato distrutte (che sono lunari e perciò anche psichiche e femminili), permette la guarigione dalla paranoia e dai comportamenti ostili facendo tornare l’armonia. La distruzione delle tavole della legge nella favola viene poi corretta, il distacco dal Sé profondo viene colmato, le tavole vengono infatti nuovamente incise.
Siamo dunque nel 1850, esattamente centosessanta anni fa (la favola è stata narrata nel 2010). Questa data ha qualche significato simbolico particolare? Perché viene definita con questa precisione? Cosa è successo nel tempo mitico ligure, nel luogo delle favole che è in realtà fuori dallo spazio e dal tempo. ‘C’era una volta e più precisamente…’ è come dire: questa situazione che state per leggere esiste continuamente in una zona psichica, l’inconscio collettivo, che è sempre presente, che voi la percepiate o no. In questo caso però c’è maggiore precisione, c’è un intervento maggiore della coscienza, del calcolo dell’io narrante che vuole imporre al tempo mitico una data, al simbolo una interpretazione, una definizione.
Se dunque noi dobbiamo leggere la favola come un messaggio dell’inconscio collettivo ligure ai liguri ‘moderni’ di oggi cosa vuole significare la data ‘1850’ oppure la cifra 160 messa all’inizio del testo?
Applichiamo per questa volta una interpretazione di tipo numerico, trattiamo il numero qualitativamente come una forza agente nell’inconscio, una entità vivente simbolica che possiede un significato da darci, un enigma che chiede di essere risolto (altrimenti non ci sarebbe, la data sarebbe una informazione superflua, noi invece indaghiamo anche il particolare e vogliamo coglierne il senso come se in un sogno comparisse un numero e desiderassimo interpretarne il significato).
1850: la somma delle cifre 1+8+5+0 equivale a 14, 1+ 4 equivale a 5. 160, la somma delle cifre è 7. Quindi nella favola i protagonisti vivono nel 5 e da quella zona psichica ci separa 7, da allora è passato 7.
Cosa vuol dire? Il simbolismo del numero 5 è molto vasto, noi ci limiteremo a pochi accenni. Innanzitutto si deve osservare che la mano ha 5 dita. La mano può essere dinamica, forte, rigorosa (lavora, si muove, afferra, può essere chiusa a pugno per picchiare), maschile, ma può anche essere dolce, accogliente se aperta a coppa, capace di offrire generosamente e donare, capace di accarezzare e confortare, quindi misericordiosa e femminile. Le due mani sono i due 5 nel corpo umano, il lato maschile forte e il lato femminile flessibile, che si MANIfestano in varie modalità in ciascuno. L’eccesso di forza può diventare durezza e arroganza (eccesso di maschile), l’eccesso di flessibilità può diventare mollezza e debolezza, incapacità di decidere o passività (eccesso di femminile). L’eccesso di una delle due polarità provoca l’esagerazione dell’altra e la perdita dell’armonia interiore. Troppa forza maschile significa un femminile debole e passivo, viceversa troppa flessibilità femminile indebolisce il rigore e la capacità dinamica, attiva della persona. Il cinque è dinamico, segue il quattro che è statico (un quadrato, un tavolo con 4 gambe stanno fermi, il 4 nel caso negativo è la morte, la paralisi, in quello positivo è la stabilità, la solidità: è un uomo quadrato, con la testa sulle spalle…), il 5 introduce dunque un nuovo movimento dopo il 4.
Le 4 stagioni che si susseguono sempre uguali vengono dinamizzate dal 5, il quinto elemento, la cosiddetta quinta essenza che poi è lo Spirito che muove la materia, il vento, il soffio che anima l’argilla di Adamo e lo fa vivere, respirare, pensare, agire. Il 5 è il numero dello Spirito in noi, che siamo terrestri e quindi quadrati (la terra si misura infatti in metri quadri!) ma abitati dal soffio del 5 che si esprime nelle mani. Lo Spirito si MANIFESTA attraverso le mani e il corpo, è il 5 nel corpo. Il corpo umano con le 2 gambe aperte e le 2 braccia allargate e l’unica testa, (vedi il famoso uomo disegnato da Leonardo da Vinci inscritto in un quadrato e in un cerchio), ci mostra la forma spirituale a 5 del corpo umano.
Nella favola il paese di Cian Bon (Buon Piano, evidentemente il 4, i piani si misurano in cm o metri quadrati appunto) è immerso in un tempo ciclico e ripetitivo (ancora il 4, la stasi, la stagnazione): le case sono di pietra e argilla (terra), le giornate scorrono sempre uguali (stasi, 4) e la gente si annoia e controlla che tutto sia come deve essere (il controllo sociale ossessionante che deve impedire alle forze dinamiche di infrangere l’ordine rigido e calcolatore della materia, del 4, su tutto regna il lavoro quotidiano nei campi, ancora nel 4).
In questo contesto così monotono (nel 1850, dunque quando appare il 5), accade che due fratelli, molto strani, si manifestino e siano mal visti (lo Spirito appare inquietante e fuori luogo per il 4. La Vergine Maria (Terra=4) è rimasta scioccata dall’arrivo dell’Angelo che le annunciava l’introduzione dello Spirito dentro di lei. Simbolicamente il 5, il Cristo, entrava nel 4, nella madre, nella terra. Lo Spirito Santo si incarnava nella materia pura e capace di accoglierlo e di non rifiutarlo, nella Vergine…).
L’atteggiamento degli abitanti di Cian Bon è di grande diffidenza nel momento della comparsa dello Spirito, cioè del 5, che qui viene raffigurato nei suoi due aspetti maschile e femminile, Orazio e Genoveffa, due stregoni, due divinità che conoscono tutti i segreti della Natura (i due dei sono vestiti di marrone o come dei cacciatori quindi sono due esseri in contatto con gli animali e i boschi come la dea Artemide, l’Orsa, la cacciatrice o l’antico dio celtico ligure Kernunnos, il Cervo, il Cornuto, Signore degli animali e della natura vegetale).
Quella che appare, l’epifania dei due fratelli, è un’antica divinità della natura nei suoi due aspetti di forza maschile e sapienza femminile. E’ una divinità, una forza dell’inconscio collettivo, che ritorna dopo molti secoli e che non riesce subito a farsi accogliere dallo spirito ligure ormai vecchio e sterile, morto, diffidente, paranoico e che teme le forze naturali, vietate dal cristianesimo per secoli. La strega e lo stregone, anche se conoscevano il potere curativo delle erbe medicinali e albergavano in sé la capacità riflessiva (lo specchio) e le tavole di pietra della conoscenza dei segreti delle forze naturali vegetali e animali, rischiavano sempre di venire bruciati o banditi dal paese (dalla coscienza collettiva, il vecchio re delle favole).
I due fratelli portano la luce (della coscienza) che giace nel bosco (inconscio), veicolano la coscienza riflessiva della natura che si manifesta per esempio attraverso le immagini dei sogni, che sono messaggi e luce dell’inconscio. Vivono nella grotta che si nasconde nel mondo notturno dei sogni, dietro la pietra-specchio, nel centro profondo della personalità. La pietra-specchio qui è simbolo dell’anima riflessiva contrapposta alla mente dell’io, rappresentato dagli abitanti di Cian Bon che sono le parti diurne della personalità. Conservano e trasportano le cose in cestini di nocciòlo e castagno o faggio, tutti alberi magici: come abbiamo scritto sopra è la regina delle fate celtica Mab che porta i sogni agli uomini e che vive nel nocciòlo, come si legge in Shakespeare. E’ Cenerentola, la nostra anima disperata, che chiede aiuto all’albero di nocciòlo per essere salvata dalle sorellastre e dalla matrigna. Comunque, dopo una fase di diffidenza e paura, il conflitto fra l’io ormai decrepito e troppo pieno di leggi asfissianti e lo Spirito della Natura esplode e la distruzione delle conoscenze tradizionali (la grotta e le tavole con le ricette) sembra arrivare al culmine (questa è la nostra fase storica attuale!).
Dopo questa distruzione la personalità e la società precipitano in uno stato depressivo collettivo ma per fortuna queste forze dell’inconscio, Orazio e Genoveffa, riescono di nuovo a prevalere e a curare questo atteggiamento rigido, unilaterale e paranoico del vecchio io e a fornire nuova linfa al vecchio albero. Sembrerebbe dunque che i liguri si riprendano da secoli di diffidenza nei confronti dei loro antichi dei o sciamani e collaborino di nuovo con quelle forze naturali che si nascondono nel bosco ma che vivevano un tempo anche con loro, nel loro paese, cioè nella loro coscienza.
Per concludere bisogna cercare di capire cosa sia il 7 che ci separa dal 1850, cioè dal 5, dallo spirito. Il 7 come fase è il periodo tradizionale, si pensi alla settimana che rappresenta un ciclo temporale completo. Si lavora per 6 giorni all’esterno ma il 7° giorno è sacro, è la pausa che deve essere dedicata all’interiorità e al sacro, alla conoscenza e all’unione col divino, anche col divino nascosto nella natura, nella terra, nel bosco, cioè a Orazio e Genoveffa (ma potremmo anche chiamarli Osiride e Iside, Apollo e Artemide, Kernunnos e Mab, i nomi qui non contano: sono sempre i due fratelli, le due forze divine maschile e femminile in unione al centro dell’inconscio e della natura, loro sono la forza vitale cosmica che non è solo in cielo e lontana, ma anche qui in terra, in Liguria, e vicina).
Quindi ciò che ci separa è una fase compiuta, un 7. Che è come dire che si ricomincia da capo, è di nuovo quasi lunedì e si ricomincia, si ha di nuovo a che fare con Orazio e Genoveffa dopo una lunga fase in cui erano stati messi da parte per paura, aggrediti e allontanati da noi perché troppo strani. Ma forse oggi ci stiamo accorgendo che non sono più i nostri nemici, la favola dice infatti che le forze divine nella natura sono i nostri terapeuti, i medici che curano il corpo e la mente con le erbe e con i sogni, cioè con le tavole e la pietra-specchio. Dobbiamo accogliere di nuovo i due fratelli e amarli, come loro amano noi, riconoscendoli negli animali, nelle piante e nei fuochi interiori della coscienza che si accendono nel bosco, cioè i sogni e le favole.
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LA LEGGENDA DELLA LESCIA
C’era una volta in un piccolo villaggio di contadini e boscaioli, arroccato tra le montagne delle Saline ed il Colle dei Signori, un ricco mercante di legna egoista ed avido che tagliava gli alberi di castagno privando la povera gente di un alimento importante per vivere.
Portava i tronchi sani in una fabbrica dove il legname veniva lavorato, privato della corteccia, fatto bollire ed estratto il succo del legno, il tannino, che veniva utilizzato per fare il tritolo ed il pitrico “polvere da sparo”.
Questo perfido mercante si era arricchito dopo aver ricevuto in dono da una maga una blusa di velluto blu adornata con due splendidi bottoni d’oro.
I bottoni davano la possibilità a chi possedeva la giacca di esprimere due desideri: “u sciù” Gilberto aveva espresso anni prima il suo più grande bisogno, quello di diventare molto ricco senza farsi alcuno scrupolo per nessuno.
Da qualche settimana però gli affari cominciarono ad andare poco bene, la richiesta di legname diminuiva e la ricompensa era misera.
Scoperto che nel suo giardino un gatto nero randagio aveva trovato rifugio, l’ignoranza gli dettò che la causa dei suoi mali fosse dovuta alla presenza del povero animale ignorando completamente il fatto che il suo servitore, mettendo ordine negli armadi, prese e bruciò la blusa magica pensando che ormai fosse troppo logora per essere indossata.
Una sera preso dall’ira decise di uscire nel giardino con una scopa di saggina per rincorrere e bastonare il gatto che tutto acciaccato fuggì verso la casetta di un’anziana donna che viveva sola e poco distante da lì, la quale lo accolse con estremo piacere.
Il gatto a casa della vecchietta viveva benissimo, aveva tutto ciò che gli occorreva e un bel cuscino morbido accanto al camino ma con nel cuore un grande desiderio, diventare bianco per non essere più perseguitato e maltrattato.
Trascorsero alcune settimane, quando passeggiando nel bosco vicino a casa, il gatto che la vecchietta aveva chiamato Ettore trovò un mucchietto di soffice cenere e come tutti i gatti non seppe resistere alla tentazione di strofinarsi un po’.
Notò tra il grigio della cenere qualcosa che luccicava e con la zampa si divertì a giocherellare ignaro con i due bottoni della blusa magica.
Un buon profumo di pesce ricordò ad Ettore che era quasi ora di cena e così si incamminò verso casa.
All’improvviso però un violento acquazzone lo bagnò completamente.
Arrivò a casa gocciolante, la nonna Cesarina lo avvolse in un panno morbido cercando di asciugarlo.
Quando la vecchina sollevò il panno non credette ai suoi occhi vedendo che il gatto nero era diventato bianco.
Pensando che la cenere avesse delle virtù sconosciute decise di provare a lavare le lenzuola con acqua e cenere proprio come era capitato al suo gatto.
Da quella volta la biancheria stesa al sole candida e profumata di nonna Cesarina divenne l’orgoglio di tutta la valle ed ancora oggi nel villaggio i vecchi raccontano ai bambini la storia del gatto Ettore e della sua padrona che per anni fu l’unica custode del segreto della lescia.
Angelo Gallizia
Ada Oddone
Erminio Moraglia
Adolfo Simondo
Commento alla fiaba
Questa favola ci permette di gettare uno sguardo su un personaggio molto diffuso nelle favole come nella realtà quotidiana: il ricco mercante egoista, ricco, avido e senza scrupoli. Questa figura taglia gli alberi di castagno e non permette alle altre figure interiori della personalità (i contadini e i boscaioli) di avere sufficiente spazio. L’ego assorbe troppa energia psichica, è avido e aggressivo (fabbrica esplosivi, è bellicoso, iroso) e si oppone alle parti che lavorano la terra (che è simbolo della madre interiore, della femminilità e del legame con la natura, resa docile grazie alla cultura e alla coltivazione di sé stessi, il campo lavorato) e il legno (simbolo dell’essenza, del vigore maschile, immagine del boscaiolo che ha l’ascia, che è armato, che è fallico).
L’essenza maschile, l’albero, è quindi deviata in senso aggressivo invece di nutrire interiormente, è usata per lottare, per primeggiare e guadagnare, impoverendo così la personalità globale: un atteggiamento oggi molto diffuso purtroppo: la mente va a scapito del corpo. Chi ha scritto questa favola è evidentemente dominato dal complesso di Saturno, il dio con la falce (con cui taglia gli alberi e la vita), l’Antico di Giorni, il Vecchio Malefico, ma anche il dio dell’età dell’oro.
La ricchezza è magicamente donata al mercante da forze inconsce femminili abissali (la maga) che gli ha dato una blusa di velluto blu che ha DUE bottoni d’oro. Il blu è qui il colore della depressione, il velluto ricorda la morte e i paramenti funebri, i due bottoni d’oro, cioè due centri solari della coscienza, mostrano la DIVISIONE, l’aspetto DIABOLICO di questa coscienza. La divisione (la falce), la depressione, l’avidità di oro sono tutti simboli di Saturno-Crono.
Viene mostrata attraverso la favola un’esasperazione nella coscienza collettiva (blusa = abito mentale) dell’avidità nelle sue diverse forme (bulimia, cupidigia, gelosia, avarizia, ambizione, erudizione esagerata) fino ad arrivare al tema di Crono che divora i propri figli. Saturno nei suoi aspetti negativi esprime un ego insensibile, freddo, pessimista, melanconico e che si rifiuta di vivere e di provare gioia. E’ un vecchio amareggiato.
Detto in altre parole l’ego non ascolta l’inconscio, “la gente della valle, il piccolo popolo di contadini e boscaioli” cioè le parti interiori che lavorano il corpo, la terra e lo spirito, il legno.
Come conseguenza di questa dissociazione della personalità l’ego acquisisce sempre più potere, si arricchisce e il resto della personalità si impoverisce. La causa di questa dissociazione è la blusa di velluto blu con due bottoni d’oro che rappresenta la perdita dell’unità della personalità (l’ego deve nutrire, cioè ascoltare, contadini e boscaioli, non affamarli).
Il mercante ha ancora il potere conferitogli dalla maga che gli permette la trasformazione dell’energia in denaro ed aggressività. In termini freudiani potremmo quindi parlare di una fissazione dello sviluppo dell’ego alla fase fallico-anale. Sono i DUE bottoni che permettono di esprimere DUE desideri, DUE bottoni d’oro cioè due piccoli soli d’oro. La luce della coscienza è divisa in due e l’ego del mercante si rende autonomo dal resto della personalità, è chiuso nel suo narcisismo, non si fa più scrupoli per nessuno e non è più ricettivo. Perde il femminile, la capacità di accogliere (terra, madre), perde l’anima, precipita nella materia rappresentata dalla maga e dalla blusa blu e dal mondo della quantità e dei calcoli. La blusa blu è quindi, ripetiamo, l’abito mentale depressivo e calcolatore, è Saturno.
Saturno è il Vecchio che provoca separazione, rinuncia, castità, abbandoni, sacrifici e si oppone a ogni cambiamento. Saturno è rigido, tende a fissare le situazioni, è conservatore delle cose esistenti, nel bene e nel male. Qualunque immagine che indichi la fine di un ciclo e l’inizio di un altro è espressa da Saturno. In questo caso l’autore della fiaba è preda di questo stato mentale, ed è probabilmente arido, freddo, secco, castrante, triste.
Questo atteggiamento depressivo viene improvvisamente meno. Si potrebbe dire che l’energia dell’ego diminuisce, forse per l’invecchiamento (nella favola è detto: ‘gli affari del mercante cominciano ad andare poco bene’) e compare un gatto nero randagio.
Il gatto nero, tradizionalmente associato alle streghe, è un simbolo dell’anima femminile legata alla natura e per questo demonizzata o perseguitata dallo spirito patriarcale del mercante che taglia gli alberi, li rende merce esplosiva e guadagna sfruttando la natura.
Essendo il gatto in relazione alle forze selvagge della natura è collegato all’acqua, alla pioggia, alla fecondità, all’istintualità animale, alla sessualità. L’arrivo del gatto randagio esprime il ritorno di forze naturali prima represse dall’ego depressivo, vecchio, calcolatore e melanconico.
Infatti il mercante tenta ancora di scacciare il gatto, di allontanare il lato oscuro della personalità (l’Ombra animale e femminile) usando l’arma dello stregone, la scopa di saggina, un palo fallico maschile con cui eliminare il fastidioso femminile: il patriarca vuole bruciare la strega che abita in lui e che non riconosce come un suo aspetto represso della personalità.
E’ l’inizio della vendetta degli aspetti naturali, cioè dei contadini e dei boscaioli interiori che sono gli amici della Terra, della Grande Madre Natura, che presto comparirà come ‘Nonna Cesarina’. Ma andiamo con ordine.
La blusa blu, l’habitus depressivo-calcolatore, viene bruciata dall’inconscio rappresentato dal servo del mercante, un lato disprezzato della sua personalità che si ribella e dà fuoco a questo atteggiamento (il fuoco cioè le passioni e le emozioni violente mandano in pezzi la struttura dell’io rigido). Il servo, che dà fuoco, è l’altra faccia del gatto nero, che porta acqua e pioggia. Insieme raffigurano le forze elementari dentro di noi, indipendenti dall’ego e originate dall’inconscio profondo.
Per sfuggire all’ira del mercante (per sfuggire alla depressione, alla castrazione, rappresentate da questo personaggio) il gatto si rifugia nella casetta della Grande Madre, la vecchietta Cesarina, una strega o una divinità della Natura evidentemente, visto che ospita gatti neri vicino a un camino. Camino che ha un simbolismo assiale affine a quello della scopa di saggina poiché permette il passaggio dalla terra al cielo e viceversa (Babbo Natale passa infatti attraverso il camino per esempio) come la scopa che permette alla strega di volare. La strega ha inoltre il controllo del fuoco, è una vestale, controlla cioè l’energia interiore all’interno del corpo-casa dell’autore della fiaba, è la custode della sua energia vitale e giace nel suo inconscio, nel bosco.
Il gatto a un certo punto subisce un processo alchemico di trasformazione attraverso la cenere e l’acqua, si purifica, da nero diventa bianco, perde i lati minacciosi e selvatici e oscuri. Dalla oscurità dell’inconscio il gatto emerge e si fa cosciente, bianco. Ci si accorge di lui, viene accolto dalla personalità che prima lo rifiutava e non lo vedeva.
La cenere, residuo di ciò che resta dopo la morte e simbolo di purificazione (nel Mercoledì delle Ceneri per esempio), rappresenta la morte e la rinascita attraverso il fuoco. Ciò che resta è il residuo o l’oro, il lato immortale della personalità, il lato incorruttibile e eterno, il Sé.
Dopo che la blusa è bruciata sono infatti rimasti i bottoni d’oro e la cenere che trasforma il gatto. Dalla morte dell’ego legato a Saturno nasce quindi la capacità di giocare e di essere solari. Ma si potrebbe anche dire che essendo “il grande desiderio del gatto il diventare bianco per non essere più perseguitato e maltrattato” il lato femminile, l’anima, sente di poter venire accettata dall’ego patriarcale solo se si purifica, se diventa verginale e abbandona i lati animali selvaggi.
Questo significa che l’autore tipicamente accetta il femminile solo se è asessuato e non legato alla natura, accetta la Vergine Maria ma non Maria Maddalena o la Dea Kali degli Indù o la dea Persefone, l’Afrodite o la Psiche degli antichi greci (che rappresentano rispettivamente la morte, la sessualità e l’amore carnale o la capacità di relazione psicologica), tutte figure femminili legate anche agli istinti oltre che allo Spirito, divinità nere, oscure, tenebrose, legate al corpo e alla materia e non solo bianche e spirituali.
La capacità trasformativa, il passaggio alchemico da nero a bianco, la capacità di perdere i lati negativi del carattere e purificarsi, rimane comunque alla Grande Madre, a Nonna Cesarina. Dopo la morte di Saturno, del vecchio maschile calcolatore, è lei che resta la custode di questo segreto di trasformazione della personalità, è lei che rappresenta il nuovo stile di coscienza femminile che sta apparendo e che dominerà terminata la fase patriarcale attuale.
FILUMENA E A CAMPANA D’OU. (Filomena e la campana d’oro)
C’era una volta tra la Valle dei Ladegni, la frazione di Caragna, un pugno di poche case abitate da contadini e boscaioli. A pochi passi da lì, un ponte di legno permetteva di attraversare un limpido ruscello dall’acqua che pareva d’argento e giungere alla cascina abitata da Carletto e Filomena.
Lui era piccolo e robusto, timido e schivo, lavorava da mattina a sera per soddisfare le ambizioni della sua signora, una donna piena di sé che aveva come unico desiderio che la gente dei paesi vicini la vedesse sempre come la più bella non solo di quella valle ma anche di quelle confinanti.
Era una donna prepotente, con le mani bucate che pensava solo a sè. Per lei la bellezza era tutto, comprava molto di più di quello che le serviva per presentarsi davanti allo specchio posto all’ingresso della sala da pranzo e dire a se stessa: “se lo specchio non mi inganna sono la più bella di Caragna!”.
Il povero Carletto sgobbava tutto il giorno per guadagnare pochi soldi ed accontentare la moglie spendacciona e con poco giudizio.
In montagna si sa la vita è dura, bisognava lavorare tanto per guadagnare poco; Carletto coltivava l’orto e la vigna, tagliava la legna e per giorni stava nel bosco per poter fare il carbone e consegnarlo ai commercianti della città; a seconda della stagione raccoglieva i frutti del bosco per venderli al mercato dei paesi vicini.
Un pomeriggio di settembre Carletto decise di andare a caccia avendo visto in mattinata una nidiata di galli di montagna e pensò che avrebbe potuto rimediare la cena e vendere la selvaggina alla locanda che si trovava nei dintorni.
Percorrendo il ripido sentiero che attraversa il bosco di Camolera, giunse fino ad un laghetto di montagna. Lì per dissetarsi c’era un gallo cedrone. L’uomo imbracciò il fucile, lo puntò contro l’animale ma prima di premere il grilletto ebbe un ripensamento e preferì un rimprovero da Filomena tornando a casa piuttosto che togliere la vita ad un essere vivente così bello e colorato.
Per non tornare a casa a mani vuote pensò allora di raccogliere mirtilli, lamponi, more e fragoline. Fece dei cestini con le foglie di castagno, rametti e fili d’erba, li riempì di frutta fresca e profumata con l’intenzione di venderli a qualche passante di buon cuore.
Il gallo di montagna colpito dalla bontà d’animo del contadino decise di parlare con lui. Sentendo le sue lamentele e la preoccupazione gli promise di aiutarlo ad affrontare il malumore della moglie e gli disse: “vai a casa e non ti preoccupare, incontrerai qualcuno che ti aiuterà”.
Strada facendo incontrò un mercante di vestiti e stoffe pregiate il quale rivolgendosi a Carletto chiese: “Brav’uomo, ho molta sete, barattereste il vostro cestino di buona frutta con un abito per la vostra signora?”. Il contadino contento tornò a casa con uno splendido vestito che incantò Filomena.
Carletto raccontò l’accaduto e di quel felice incontro alla moglie la quale, non contenta, gli disse: “Sei proprio stato un sempliciotto a non chiedere di più al gallo, domani andrai al lago e gli chiederai una bella collana che stia bene sul mio abito nuovo”. Carletto alle prime luci del giorno dopo partì alla ricerca del gallo, trascorse quasi tutto il giorno ma dell’animale non ne vide una piuma. Giunse l’ora di tornare a casa perché stava per sopragiungere il buio e Carletto cominciò a legare insieme delle castagne infilandole una ad una per farne una collana anche sapendo che la moglie non ne sarebbe stata contenta. Arrivato quasi alla fine del sentiero incontrò il gallo al quale con un po’ di imbarazzo raccontò il desiderio della moglie. L’amico gallo cedrone gli disse: “torna a casa e vedrai che tua moglie sarà soddisfatta”. Carletto mise la collana di castagne in tasca e con perplessità e un po’ di tristezza andò verso casa. Bussò all’uscio, Filomena tutta emozionata aprì, l’uomo afferrò la collana, gliela porse ed incredulo vide che le castagne erano diventate delle magnifiche perle.
La moglie anche questa volta, non ancora contenta disse al marito: “Ma già che c’eri non potevi chiedere qualcosa di più?” Lui rispose: “ma bisogna anche sapersi accontentare!. “Mai accontentarsi, la vita è una sola e bisogna sempre volere il meglio. Domani andrai di nuovo a cercare il gallo cedrone e gli chiederai una bella campana d’oro da mettere sulla torretta di casa così che ogni giorno a mezzogiorno in punto ricorderà a tutti nella valle che sono la più bella.”
Carletto allo spuntar del giorno partì alla volta del Pian del Lago per cercare l’amico gallo e lo trovò proprio vicino all’acqua che stava cercando un po’ di cibo. L’uomo si rivolse ancora una volta con fiducia al gallo di montagna facendogli presente i nuovi desideri della moglie. Carletto si dissetò e riprese fiato prima di far ritorno a casa.
Per alcuni giorni la campana suonò regolarmente per elogiare la bellezza di Filomena fino a che un bel dì Carletto tornando a casa dal bosco, dove aveva costruito una carbonaia, riflettè sul fatto che il giorno prima la campana non l’aveva sentita.
Il pover’uomo la risposta la ebbe una volta giunto nelle vicinanze di casa incontrando nuovamente il gallo di montagna che con contenuta soddisfazione disse a Carletto: ”Filumena a sona a campana, a campana a se ghè rutta e Filumena a chè restà sutta”.
Da quel giorno il povero Carletto scoprì cosa volesse dire vivere in tranquillità e in santa pace.
Ada Oddone
Angelo Gallizia
Giovanni Beghelli
TRATTO DA UNA FIABA CHE RACCONTAVA MIO PADRE, VITTORIO ODDONE:
A FORA DU FURMAGGIU (La favola del formaggio)
C’era una volta un uomo rimasto vedovo con due bambini, il più grande aveva appena compiuto sei anni mentre la bambina non ne aveva ancora cinque.
Quest’uomo, dopo qualche tempo di solitudine, conobbe una donna di pochi anni più giovane e piuttosto ricca che sposò dopo alcuni mesi di frequentazione una mattina di primavera. L’uomo ed i suoi figli lasciarono subito la catapecchia dove avevano vissuto fino ad allora e si trasferirono in una bella e confortevole casa.
La matrigna era molto cattiva con i bambini e dopo poco tempo dal matrimonio minacciò il marito:”se non li porti via da casa caccerò anche te !”.
L’uomo meditò per qualche giorno su come risolvere quella difficile situazione, poi una mattina di buonora prese una grossa forma di formaggio e portò con sè i ragazzi dicendo loro che sarebbero andati a fare un gioco in montagna.
La figlia si portò dietro un sacchetto di crusca e mentre andava per strada la lasciava cadere a terra.
Arrivati in cima alla montagna il padre disse ai suoi figli:”lascerò andare la forma di formaggio giù per questo sentiero, chi arriverà per primo a prenderla vincerà un premio”.
Mentre i figlioli erano impegnati in questo insolito gioco il padre, anche se a malincuore, se ne andò verso casa.
Il formaggio ruzzolando tra l’erba, i cespugli ed i sassi si frantumò in mille pezzi e prima che i bambini ebbero terminato di raccoglierlo tutto e fecero ritorno in cima alla montagna, la notte sopraggiunse e guardandosi intorno, chiamando invano il papà, capirono di essere stati abbandonati.
Passarono la notte rannicchiati sotto le foglie per stare al caldo e per fortuna poterono sfamarsi con quel formaggio che avevano avuto la pazienza di raccogliere con cura.
Con le prime luci del giorno i due fratellini decisero di ridiscendere la montagna; alla bambina tornò in mente la crusca e cercò disperatamente almeno un segno di ciò che aveva lasciato cadere il giorno prima. I due piccoli si sedettero a terra sconsolati, non c’era più una briciola di crusca ed il bimbo strinse tra le braccia la sorellina minore che scoppiò a piangere senza riuscire a fermarsi.
Le formiche che vivevano da quelle parti sentirono il pianto di quella bambina così piccola e capirono che la colpa era la loro se i due non riuscivano più a tornare a casa visto che avevano portato tutta la crusca dentro il formicaio.
La colonia di formiche decise allora di mettersi tutte in fila per indicare la via ai bambini, i quali videro subito quella scia scura andar giù per il prato e capirono che le formiche stavano indicando la strada che li avrebbe riportati a casa.
Giunti a valle bussarono alla porta della cascina ed il padre andò ad aprire.
L’uomo alla vista dei suoi figli si commosse, li abbracciò forte e li fece entrare promettendo loro che non li avrebbe mai più lasciati soli.
L’uomo quella notte non riuscì a prendere sonno e rigirandosi nel letto prese la sua decisione. L’indomani aspettò che la moglie tornasse da un viaggio per controllare i suoi poderi e le comunicò l’intenzione di tornare a vivere nella modesta casetta di legno con i suoi amati figli e la salutò con un proverbio: “chi l’a ina cassa e in trei pè cu nu vagghe a sta sutte muiè”.
Gli anni passarono, i due bambini divennero grandi e misero su una bella fattoria a Villa Faletto dove producevano ottimi formaggi in onore a quell’importante alimento che li aveva sfamati per tutta la vita.
Tanti viaggiatori passando di lì assaggiavano e compravano il loro formaggio nel quale si sentiva tutto il sapore ed il profumo dei prati.
Ada Oddone
Angelo Gallizia
Esistono diverse versioni di questa fiaba che rappresenta la favola tradizionale che un tempo veniva raccontata ai bambini dagli anziani nelle serate d’inverno quando si stava insieme attorno al focolare. Noi ve ne presentiamo una nostra versione.
A FORA DE PEGULIN O PINULIN
C’era una volta un bambino molto piccolo e gracile ma assai furbo e coraggioso, di nome Pegulin (Pinulin). Egli era orfano e viveva insieme alla vecchia nonna in povertà con quel poco che bastava per vivere senza morire di fame.
Un brutto giorno però la nonna dovette avvertire Pegulin che avendo esaurito ogni scorta non rimaneva più nulla da mangiare e che se non avessero trovato al più presto una soluzione sarebbero morti di fame nel giro di poco tempo.
Quella stessa sera Pegulin decise di andare a procurarsi un po’ di cibo nel giardino del mago che viveva nei pressi della loro casa. Egli era un mago cattivo e molto avaro, Pegulin sapeva che se fosse stato scoperto avrebbe fatto una brutta fine. La fame però era troppa e pensò che entrando di nascosto e portando via poco il mago non se ne sarebbe mai accorto.
Così fece ed una volta dentro scoprì questo fantastico giardino sempre rigoglioso in ogni stagione dell’anno. Immediatamente il piccolo scorse un grandissimo albero carico di fichi all’inverosimile, vi si arrampicò con abilità e ne raccolse qualcuno anche per la nonna, pochi, affinché il mago cattivo non se ne avvedesse e per potervi ritornare ancora la sera successiva.
Per diverse notti Pegulin potè entrare di nascosto nel giardino a procurarsi i fichi da mangiare, finchè una brutta sera fu pescato in flagrante dal mago che già da qualche tempo, insospettito, stava facendo la guardia alla sua proprietà .
“ Dal momento che tu hai mangiato i miei fichi, io ora mangerò te!”, gli disse minaccioso il mago.
Osservandolo meglio però si accorse che in realtà Pegulin era tutto pelle ed ossa e non c’era poi molto da rosicchiare. Pensò, dunque, di chiuderlo in una botte di legno ed ordinò alla moglie di portargli molto da mangiare in modo che crescesse ed ingrassasse un po’ prima di buttarlo nel pentolone. Ogni giorno il mago andava ad assicurarsi che il piccolo crescesse ed ingrassasse. Per verificare egli diceva: “ Pegulin Pegulettu muscime in po’ u to diettu!” e controllava il dito del bambino attraverso un buco della botte.
Per qualche tempo Pegulin riuscì a scamparla mostrando al mago anziché il dito, la coda di un topolino che stava nella botte insieme a lui, ma alla fine il mago decise comunque che non avrebbe aspettato ulteriormente e che se lo sarebbe mangiato.
Lo portò dunque alla moglie affinché glielo cucinasse quella sera stessa. Una volta sola col bambino la donna cercò di farlo spogliare per gettarlo nella pentola a bollire: “Pegulin Pegulettu levite in po’ sta maietta!” Il piccolo astutamente fece finta di non capire. Pregò la donna di mostrargli che cosa doveva fare, questa allora fece per togliersi la maglia ma Pegulin, che non aspettava altro, ne approfittò per spingere la moglie del mago nel pentolone.
Poi, affinché il mago non si accorgesse di niente, tagliò la testa alla moglie e la portò di nascosto sul letto in camera loro. Quando la sera il mago rientrò a casa andò subito a sedersi a tavola con un enorme appetito. Trovò infatti la tavola apparecchiata ed imbandita ed ignaro di quanto fosse accaduto principiò a divorare quanto aveva nel piatto.
Ad un certo punto fu colto da un presentimento e non vedendo la moglie volle controllare: egli sapeva benissimo che sua moglie era molto velenosa ed anche solo rosicchiarle un’unghia sarebbe significato per lui morire!
Aprendo la porta della camera, nella penombra, la vide nel letto così sentendosi rassicurato e pensando che fosse stanca tornò a tavola per terminare il suo pasto.
Come previsto, poco dopo il termine della cena il mago morì, Pegulin potè così uscire allo scoperto e corse subito a chiamare la nonna per rassicurarla che stava bene.
La nonna e Pegulin decisero poi di andare ad abitare nella casa del mago dove trovarono tante provviste e tanta abbondanza da vivere felici e contenti per tutta la vita.
“A GROTTA DELL’URSU” E LA PENTOLA DEI DESIDERI
C’era una volta sul Monte Rotondo un gruppo di quattro amici che una mattina di settembre partirono di buon’ora al chiaro di una lanterna ad olio per andare a cercar funghi. I più piccoli erano venduti all’emporio del paese ed i più grossi fatti seccare al sole per l’inverno.
Camminarono per circa un’ora e mezza passando dal sentiero che costeggia il Siondo. Funghi ne trovarono talmente tanti che i quattro amici decisero di nasconderli ed uno di loro andò a casa a prendere il carro con la mucca e la slitta “u trazin” per caricarceli sopra.
Girando per il bosco uno di loro notò un grande sasso con una spaccatura da un lato e mettendo l’orecchio si rese conto che dietro passava l’aria. Per accertarsene accese un fiammifero il quale si spense subito.
Chiamò i suoi amici sempre intenti nella raccolta dei funghi e si fece aiutare a spostare le pietre, la terra ed il muschio formati dal tempo. Il cunicolo era molto basso ma il più piccolo di loro iniziò l’esplorazione; dopo pochi minuti urlò agli altri rimasti fuori che era capitato in un mondo nuovo……. Uno alla volta raggiunsero l’amico all’interno della grotta.
Dentro c’era un bellissimo laghetto dall’acqua limpida, una scalinata con i gradini di roccia e delle stalattiti che suonavano come un organo. In cima alla scala c’erano le ossa di un orso ed una pietra con i segni delle sue unghie e subito dietro una immensa parete di alabastro.
Con la mezzanotte le acque del ruscello aumentarono ed il livello del lago salì. I quattro spaventati salirono in cima alla scala perché il livello dell’acqua si fermò al quinto gradino. Il riflesso di luce della lanterna indicò la pietra spaccata, uno di loro mise la mano nella fessura e tirò fuori una conchiglia. Incuriositi la aprirono e si sprigionò un magico arcobaleno.
L’arcobaleno guidò i ragazzi verso un’insenatura fino ad un angolo accanto ad un’apertura dove era nascosto un grosso pentolone colmo di desideri.
Ad un tratto dei rumori spaventarono i ragazzi che si nascosero nella parte più alta della grotta risalendo la scala. Notarono all’ingresso un gruppetto di ladroni pronti a sfruttare in modo malvagio i desideri contenuti nella pentola.
Pensarono così a qualcosa per far fuggire i ladroni e ricordarono di aver visto tutte quelle ossa in cima alla scala. Tra l’oscurità cercarono di rappresentare l’orso della grotta. I ladroni immaginarono che si potesse trattare dello spirito dell’orso ed impauriti a morte fuggirono nel bosco.
I quattro ragazzi ora poterono sedersi intorno al pentolone e lì esprimere ciò che tanto desideravano.
Dopo una settimana il piccolo Paolino trovò sotto al cuscino un bel libro per la scuola ricco di storie, poesie e disegni colorati.
Il nonno di Carletto riuscì ad alzarsi dal letto da solo ed andare a lavorare in giardino perché il desiderio del nipote era stato quello di fargli avere un paio di gambe nuove.
Sul tavolo della cucina Ginetto trovò tanti balocchi: una macchinina fatta con un rocchetto di legno, elastico, del sapone ed un bastoncino (si chiamava carro armato), una trottola (suava o sgadavadua), un carretto di legno, una collana, un piffero intagliato nel legno di castagno ed una bambola di pezza della quale la sorellina si innamorò a prima vista e chiamò “abarana”.
Quel giorno il padre di Valerio gli disse che non doveva andare a lavorare la campagna ma che poteva rimanere con il suo amico del cuore Ginetto con il quale potè condividere il piacere di giocare, riappropriandosi della vita da bambino diventato grande troppo in fretta.
Ada Oddone Anna Bonavera
Caterina Viola Angelo Gallizia
Adelina Moreno Remo Gastaldi
Giovanni Beghelli Pietro Oddo
Ennio Augeri
UN FIORE TRA LA NEVE
C’era una volta un piccolo borgo dominato da un maestoso palazzo dove viveva un conte che governava, faceva le leggi e le faceva rispettare, su tutto il territorio disseminato di frazioni e piccoli villaggi. Ogni anno in autunno arrivava un mendicante che chiedeva ospitalità in cambio di piccoli oggetti intagliati nel legno per i bambini delle famiglie che con generosità gli offrivano qualcosa da mangiare e un po’ di paglia su cui dormire. Gli accorgimenti che venivano presi nei confronti del vagabondo erano di controllare che non avesse fiammiferi e coltelli, gli veniva dato un piatto di minestra ed un rifugio per la notte, poi proseguiva il suo viaggio verso un’altra famiglia che riusciva a non essere diffidente o impaurita da uno sconosciuto senza meta.
Quell’anno il vagabondo con solo un sacco pieno di stracci arrivò un po’ in ritardo a Campo del Lago, mancavano pochi giorni a Natale. Vittorio stava intagliando un pezzo di legno di castagno per realizzare il presepe per i suoi sei figli e come ogni anno accolse Jacques con profondo spirito cristiano.
Contribuì anche Jacques a preparare il presepe arricchendolo di statuine in legno curate nei dettagli e con tanti animali differenti che facevano da cornice al Bambinello per la gioia di Ada e dei suoi fratellini.
Passarono i giorni e le stagioni ma di Jaques a Campo del Lago non si seppe più nulla. Finchè un mercante di stoffe non portò notizie da un paese più a nord dove il vagabondo era stato incolpato di alcuni furti e malefatte. Il mercante iniziò così il suo racconto: “ uno scaltro arrotino “amulitta” ebbe l’idea di seguire il povero mendicante per far credere alla gente che i furti commessi a danno dei contadini fossero opera sua. Invece un frate cappuccino, Frate Agostino, un giono scoprì la verità. In giro si diceva che Frate Agostino raccolse in confessione che in realtà il vagabondo non c’entrava nulla con i furti ma il ladro era il furbo arrotino. Era stato facile per l’amulitta far credere a tutti che non poteva essere un brigante un uomo con un mestiere ed era stato altrettanto semplice far ricadere la colpa su Jaques, viandante senza lavoro e senza dimora.
Il frate andò subito dal conte che nel frattempo aveva provveduto ad allontanare il vagabondo confinandolo nel bosco sepolto tra la neve ed i geli dell’inverno, per raccontargli di aver scoperto la verità sui furti pur mantenendo il segreto della confessione.
Il conte chiese al cappuccino delle prove che confermassero le sue dichiarazioni sapendo che per Agostino sarebbe stato impossibile altrimenti lo invitò, con sorriso maligno, a portargli un fiore raccolto tra la neve il giorno di Natale ed in cambio avrebbe provveduto a riammettere nella comunità il mendicante. Frate Agostino uscì sconsolato dal palazzo del conte e decise di far visita al mendicante il giorno di Natale per portargli pane e formaggio.
Faticò molto ma trascinandosi nella neve arrivò fino ad un “ciabotto”, un rifugio in pietra utilizzato dai pastori per ripararsi dalle intemperie, dove trovò Jacques.
Il mendicante fece entrare il frate il quale gli raccontò subito dell’insolito ed assurdo patto fatto con il conte. Jacques con un po’ di incredulità ripensò alla sera precedente: era la notte del Santo Natale quando un usignolo si posò sul davanzale della piccola finestra del “ciabotto” con dentro al becco un bel fiore rosso. Jacques diede al frate il fiore che offrì con orgoglio al conte”.
Questa è la storia di un bellissimo fiore, la stella di Natale che ogni anno colora di allegria le nostre case.
Ada Oddone
Caterina Viola
Giovanni Beghelli
Ennio Augeri
Maria Paola Maglio
Maria Giovanna Massa
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POESIA DEDICATA A PIEVE DI TECO
Dunde u se nasce nun tutti i ghe pon sta
perché i prublemmi da vitta i sun tanti
e tanti i se ne deve andàa.
Ma ogni bon cevascu,
anche su l’è luntan
u pensa sempre a Ceve ancoi cumme duman.
U se veghe ancu mattettu
quandu u se ne andava a demurà
in ciassa nova, derè castellu, in tu casàa.
E tra i tanti regordi quellu cu nu po’ scurdàa
u l’è u primmu amù cu stava in tu sagràa.
Tutte ste cose antighe i ghe intenerisce u còo
e u ghe n’andereva in gottu de vin de Ligasòo.
Stefano Traverso
POESIA DEDICATA “AU CAMPANA’” DI PIEVE DI TECO
In tinn’assemblea cuscì staurdinaria
u nu se po’ certu tralascià de parlà
ascì de nosce tradisiun religiuse.
In tu giru dell’annu, cun a muscica
u ghera tante pruscesciun
e in sciu finì da festa u se fasgeva muntà u balun.
E poi quandu e nosce campane i baudetta
i furestei de passaggiu i se ferma estasiai
da tanta melodia, e i dumanda: “chi l’è chi tira i curdin?”
E tutti i ghe disge: “ u l’è u nosciu Semin!”
Ma perché u ghe mette cuscì tantu sentimentu e fervu,
ma perché là a l’è a cà du Segnu.
Stefano Traverso
IL CONTADINO
Io non ho vergogna di esser contadino
vergognatevi voi che non lo siete,
se in tavola vi abbonda pane e vino
queste mie mani ringraziar dovete.
E’ vero che non son mani gentili
ma non han mai fatto cose vili,
son cotte dal sole, nere e callose
ma hanno il vanto di esser mani operose.
Lavoran sempre, non son mai stanche
e valgono più di cento mani bianche.
Angelo Gallizia
L’UCCELLETTO E IL CACCIATORE
Lenta e dorata or l’aurora appare
tra le nubi oscure del mattino,
illumina la terra, il monte e il mare.
Oh uccelletto! Tu che sei pellegrino
che dal bel monte ridiscendi a valle
attraverso l’azzurro spazio è il tuo destino.
Meglio era soggiornare sull’alto monte
tra i cespi azzurri di lavanda in fiore
e il gorgogliar festoso della fonte.
Essere beato qui tra tanto amore
e fuggire così la man del cacciatore.
Angelo Gallizia
LUGLIO DI FUOCO
Si giace in un deserto sterile
con malinconia più pura
che chiede alla amara vita ,
un’antica tristezza infinita.
Fermo al mio posto di lavoro,
bramo un desiderio d’amore
più chiaro di felicità,
ove possa saldare la somma
delle mie colpe e mie sofferenze.
O deserto di luce e di un valore antico
fatto di dune rosse al calar del sole,
ti adoperi di slancio
alla leggera brezza
di una notte lontana e oscura.
Un airone ruota nel suo volo lento,
all’aria libero della sua natura,
accortamente lieve attende una radura.
Là sul piano sabbia infuocata,
dopo ardente arsura
si agitan le dune
ammorbidite da frescura.
Raggi di sole che danzan attorno lucenti,
biancastri sullo sfondo pendenti,
e dal mite tepore
si lacera la carne con stupore.
Pasquale Fioravanti
Il dono della vita
I fiori sono la bellezza del Creato.
Cosa sarebbe la vita senza di essi?
Significherebbe vivere senza polmoni.
Cosa impossibile!
Il fiore nasce, cresce, muore ma lascia dietro di sé i semi, i germogli di un’altra vita.
E’ arrivato maggio,
il mese delle rose.
Il loro acuto profumo è un alito di dolce primavera
che conquista l’anima e dice: “Questa è la vita della natura che non ci tradisce”.
L’uomo nasce, cresce e tramonta ma l’anima vive con sé
perché lo spirito non muore mai.
Erminia Tallone
1Virgilio Eneide VI, 282-284
2 IV comandamento
Lavora sei giorni e attendi in quelli a ogni opera, ma il settimo giorno è riposo, sacro al Signore. Non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tua bestie, né il forestiero che è in casa tua.
3W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, Atto I, Scena IV. Fratelli Grimm, Cenerentola